giovedì 3 marzo 2011

La cultura del dare

Ho visto un video di tanto tempo fa in cui uno sconosciuto interlocutore poneva ad una giovanissima Chiara Lubich una domanda su, grosso modo potremmo dire, la giustizia sociale.
L’allora sconosciuta signorina rispondeva, con provocante sicurezza, che non aveva molto da aggiungere ai versetti del Magnificat: «Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore, ha scacciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili, ha colmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote».
Una risposta così asciutta ad un problema di complessità sempre maggiore, su cui si sono spese biblioteche di parole, poteva sembrare un modo furbo di eludere la domanda. Che le cose non stessero così per Chiara, lo si può desumere dal fatto che la medesima ha poi dimostrato una radicalità esistenziale di vita, narrata con i numerosi “fioretti” della prima comunità, caratterizzandone le regole con elementi della prima convivenza cristiana (confermate ripetutamente nel tempo).
Questo episodio consente dunque una possibile chiave di lettura del significato della “cultura del dare” all’interno dell’esperienza di dialogo tra persone di convinzioni diverse, ormai consolidata nell’ambito del Movimento dei focolari.
Gli aspetti più intrinsecamente religiosi del discorso di Chiara, l’aspirazione ribattuta all’unità della famiglia umana, la particolare interpretazione dell’“Abbandonato”, non sono concetti collaterali ad altri aspetti della sua esperienza di vita più laici, come la condivisione dei beni o l’Economia di Comunione, ma ne stanno alla più profonda radice.
In questo contesto, in una recente chiacchierata, tra credenti e no, a Loppiano abbiamo affrontato una serrata discussione sulla cultura del dare in tutte le sue possibili motivazioni – dalla cessione del superfluo (e per converso il tema del necessario), alla cultura del dono e al concetto della restituzione (a chi è stato ingiustamente derubato) –, chiedendoci quali siano le motivazioni fondamentali e da tutti condivisibili all’interno di un’idea di fratellanza.

Storicamente quest’idea (che non nasce nel 1789, ma ben più anticamente nel pensiero degli stoici, poi rifondata anche su altri valori dal cristianesimo e continuata nelle utopie rinascimentali fino al socialismo utopistico) si è sempre associata ad una qualche forma del principio della condivisione dei beni. E, a pensarci bene, non potrebbe essere diversamente. Infatti, in questa prospettiva, l’ordine dei valori della rivoluzione francese è invertito: non c’è prima la libertà, poi l’uguaglianza e infine la fratellanza (che non è mai arrivata), ma al contrario, solo la fratellanza può produrre la vera libertà e la vera uguaglianza.
La nostra, e non solo nostra, difficoltà a parlare pubblicamente di questo argomento nasce probabilmente da una cognizione comune e condivisa fondata su una visione arcaica e selvaggia del possedere. Così radicale e diffusa che le organizzazioni del commercio internazionale stabiliscono la proprietà di beni come l’aria, i semi delle piante, le foreste e i ghiacci dei poli, con un’ossessiva e rigida definizione di appartenenza che rende perplessi.
In un mondo, lo si voglia o no, di fatto interdipendente, quali conseguenze generali si avrebbero se, ad esempio, i Paesi della fascia tropicale del globo decidessero l’eliminazione della foresta tropicale o i Paesi in via di sviluppo scegliessero l’utilizzo del solo carbone come fonte energetica?
Tutto il progresso dell’ultimo mezzo secolo ha dimostrato che in realtà non siamo proprietari assoluti di nulla, ma solo temporanei amministratori di benefici che ciascuno di noi ha avuto in sorte nascendo in Toscana o a Bessalì (in Camerun), in una famiglia ricca o povera di qualche parte del mondo.
Per coloro che credono nella parola di fede di Cristo tutto questo è criterio e speranza del premio di vita eterna, già contemplato nel capitolo 25 di Matteo, ma risuonante in tanti profeti del Vecchio Testamento: basterebbe pensare solo alle invettive di Osea e di Isaia sulla condivisione, la pace e la giustizia.

E per gli altri, per chi come me non pensa che tutto questo abbia una remunerazione eterna?
Non cambia assolutamente nulla se si vive nella cultura dell’amore per l’umanità. Quella promessa di vita eterna si coniuga “laicamente” in una inevitabile e imprescrittibile condizione della sopravvivenza umana su questo pianeta «fintanto che il sole risplenderà sulle sciagure umane».
Il discrimine per sentirsi prima di tutto non proprietari di beni, ma temporanei amministratori di benefici, non è allora la fede, ma lo stare (liberamente s’intende) o no nella cultura dell’amore per le creature.
In questo contesto allora “il dare” non diventa una pena, una privazione di qualcosa, la volontaria espropriazione di un possesso, ma una gioia, un contributo alla sollevazione della miseria di qualcuno che ingiustamente è privato temporaneamente o permanentemente di qualche bene: la nostra azione del dare non rende una proprietà a qualcuno, che neanche lui può possedere, ma gli restituisce l’usufrutto di beni di cui è ingiustamente privato.
Ne consegue che tanta parte della ricchezza di ognuno di noi non consiste tanto nella quantità di beni che temporaneamente amministriamo, ma in quelli che durante la vita riusciamo a ridistribuire: il messaggio del francescanesimo aveva capito che la ricchezza vera è nella partecipazione alla vita del mondo delle creature, e non nella quantità di beni che ciascuno di noi amministra.

C’è poi il problema dell’animus, della predisposizione psicologica di chi è nella posizione del dare.
Mi ha colpito il racconto di un giovane che lavora in un servizio della Caritas: ha osservato che alcuni volontari si sentono “più” qualcosa, più buoni, più bravi, si sentono insomma su un gradino superiore agli altri collaboratori e a chi riceve, anche nel distribuire beni altrui.
Ma se uno sente di essere o avere di più, al massimo può stare nella dimensione della giustizia, non in quella dell’amore; insomma il corrispettivo laico dell’amore reciproco non è l’uguaglianza, ma la fraternità.
La “cultura del dare”, quindi, non è l’elemosina o la ridistribuzione di ricchezza secondo un criterio di giustizia, non è l’offerta di beni solo spirituali, non c’è qualcuno che offre e qualcuno che riceve passivamente; è invece condivisione partecipata di una ricchezza disponibile fra fratelli in nome dell’amore comune.
In questa prospettiva il più povero degli uomini ha sempre tanta ricchezza dentro di sé che può dare ad un altro, se le circostanze lo consentono, anche se non fa miracoli.
Se questa è la “cultura del dare”, allora essa non dipende da una fede, ma richiede la dimensione dell’amore, non parlato, ma vissuto. La giustizia ne è solo il presupposto.

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