Un racconto di Giulia di Pietro
"Aeroporto di Malpensa, 2 agosto 2011: stringo tra
le mani un biglietto con destinazione “Kampala – Uganda” e ancora non mi rendo
conto del tutto che sto davvero partendo, sto per realizzare quel desiderio,
presente da tempo dentro di me, di conoscere di persona un pezzo di mondo
diverso dal nostro caotico e frettoloso occidente. L’emozione è tanta, anche se
ancora non posso immaginare che quelle quattro settimane diventeranno una delle
esperienza più belle e più importanti della mia vita.
Per un mese ho condiviso la casa e la quotidianità
con un’altra ragazza italiana e tre ugandesi e questo mi ha costretta fin da
subito a mettere da parte ogni abitudine “occidentale”, ogni modo di fare o di
pensare, per aprirmi a loro e alla loro vita: ma quelle che all’inizio erano
rinunce e, per certi versi, anche piccoli sacrifici, presto sono diventate
ricchezza, un nuovo modo di pensare e di relazionarmi con chi avevo intorno.
Mi ha colpita la concezione che gli africani hanno
della persona: per loro al centro di ogni cosa sta la persona, l’altro, e non
il tempo, la fretta, gli impegni. E così, ad esempio, una riunione inizia
quando tutti sono arrivati, e non solo quando lo dice l’orologio, o l’autobus
parte quando è pieno e tutti sono saliti, e non ad un orario prestabilito. Pian
piano ho imparato a non controllare più che ora fosse, ma a lasciare che le
giornate venissero scandite dai rapporti con gli altri, piuttosto che dal
ticchettio delle lancette.
“Come potete voi occidentali basare le vostre
giornate sullo scorrere del tempo, che non vi appartiene e non potete
controllare in alcun modo?”: una domanda che ancora mi risuona dentro quando mi
lascio travolgere dalla frenesia delle giornate, rischiando di ignorare le persone
che ho attorno.
Tipico dell’Africa sub-sahariana è il concetto di
“Ubuntu”, un’espressione che può essere tradotta come “Io sono ciò che sono per
merito di ciò che siamo tutti”. A questo proposito, Nelson Mandela ha detto:
“Ubuntu non significa non pensare a se stessi; significa piuttosto porsi la
domanda: voglio aiutare la comunità che mi sta intorno a migliorare?”.
Quanta saggezza in queste parole! E mi sono
accorta, durante quel mese a Kampala, che non si tratta solo di parole ma di
vita vera, di quotidianità vissuta nella prospettiva del “noi” e non solo
dell'”io”: tutto è in comune, tutto è fatto insieme, i figli dei vicini sono
come i tuoi e anche l'ospite più sconosciuto che capita per sbaglio in casa tua
diventa immediatamente parte della famiglia.
Non scorderò mai la commozione provata quando,
insieme alle mie coinquiline, sono stata invitata a pranzo dalla famiglia di
una di loro: una casa senza bagno in un quartiere non così diverso da una
baraccopoli, eppure la tavola era imbandita e il pasto abbondante. Perché non
importa quanti sacrifici ti costi invitare a pranzo le amiche di tua figlia, l’ospitalità,
la reciprocità e la condivisione con l’altro contano più di ogni altra cosa.
Ho lasciato l’Uganda sentendomi, paradossalmente,
più ricca di prima: non certo una ricchezza materiale, ma un arricchimento
della mia persona e della mia anima che, in qualche maniera, ha cambiato anche
il mio modo di vivere in Italia. Per settimane sono stata straniera, quella con
un colore della pelle diverso, una lingua diversa, abitudini diverse; eppure
sono sempre stata accolta, ho sempre trovato un sorriso e una stretta di mano,
mai mi sono sentita discriminata o fuori posto. Adesso, incontrando per strada
i tanti immigrati che abitano nella mia città, mi sembra di vederli con occhi
nuovi: mi calo nei loro panni, non è più solo questione di rispetto umano, è la
consapevolezza che ognuno di loro ha lasciato, probabilmente per cause di forza
maggiore, patria, amici, famiglia; ognuno di loro potrebbe essere mamma o papà
dei tanti bambini che ho conosciuto a Kampala; ognuno di loro ha abbandonato la
sua casa, magari poverissima, magari in una baraccopoli degradata, ma pur
sempre la sua casa.
Questo pezzo di Africa che ogni giorno sbarca in
Europa merita, secondo me, quella stessa, enorme accoglienza che io per prima,
pur straniera e bianca, ho ricevuto in Uganda: è condivisione, è reciprocità, è
Ubuntu, è qualcosa che va ben oltre il semplice rispetto per “il diverso”. Che
poi, diverso da chi? Poche ore di aereo e “il diverso” sei tu, e ti rendi conto
che siamo tutti molto più simili di quanto non si creda."
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