di Luigino Bruni
C’è un vizio che si sta insinuando anche nel nostro tempo di crisi, e che rischia di diventare una vera e propria malattia sociale. È l’accidia, una forma di malattia del carattere, dello spirito e della volontà. Nonostante la sua evidente pervasività, di accidia oggi si parla troppo poco, la si considera una parola arcaica e desueta, e i pochi che ancora ne comprendono il significato fanno fatica a considerarla un vizio. Per quali ragioni, infatti, dovremmo considerare un vizio lo scoraggiamento, la tristezza o la noia?
I fondatori dell’ethos dell’Occidente, dai greci ai filosofi medioevali, pensavano invece concordi che l’accidia fosse un grande vizio, cioè un vizio capitale, perché è all’origine (capostipite) di altre forme derivate di disordini o di malattie del vivere, quali la pigrizia, l’incostanza, l’incuria (che è la prima etimologia dell’accidia), la mancanza di senso della vita, la rassegnazione e le depressioni, a volte anche quelle cliniche. Per capirlo occorre tornare a quelle civiltà, e ricordare che per quell’umanesimo l’accidia minacciava non solo il bene del singolo, ma, come ogni vizio, anche il bene comune e la pubblica felicità, che sono il frutto dell’azione di persone dedite e impegnate.
La vita buona è vita attiva, è compito, dinamismo, impegno civile, politico, economico, lavorativo. Per questa ragione quando nel corpo sociale si insinua il virus dell’accidia, occorre combatterlo, respingerlo, espellerlo, per non morire. Il vizio, come la virtù, è prima di tutto una categoria civile: le virtù sono buone strade per la fioritura umana o felicità, i vizi ci deviano e portano all’appassimento della vita. Con i vizi, e senza le virtù, la vita non funziona. Non sono singole azioni sbagliate, ma stati morali ed esistenziali nei quali si precipita pian piano, e non sempre come scelta intenzionale, compiuta dalla persona nella consapevolezza della strada che stava imboccando (anche per questo il vizio non coincide con il peccato). Il vizio, poi, è anche un piacere sbagliato e piccolo, che impedisce di raggiungere quello buono e grande legato all’uso corretto (virtuoso) del corpo e dello spirito, dei singoli e delle comunità. È l’accontentarsi delle ghiande dei porci e perdere i cibi della tavola di casa.
Questa ricerca di un piacere piccolo e sbagliato si ritrova anche nell’accidia, sebbene possa apparirci meno evidente rispetto alla gola, all’avarizia o alla lussuria. L’accidia arriva in seguito a traumi, crisi, delusioni, lutti, fallimenti, a ferite. Invece di mettercela tutta per riprendersi e rialzarsi, ci si crogiola nel proprio male, ci si commisera, ci si lecca le ferite. In questo crogiolamento accidioso si riesce a provare anche una certa consolazione e persino una forma di piacere, un dolce naufragar che fa sopravvivere – ma non vivere – dopo la crisi. Oggi la nostra civiltà dei consumi ci offre molte merci che ci rendono più piacevole la coltivazione dell’accidia (pensiamo, ancora, alla tv), amplificando le sue trappole. Questo piacere accidioso è però un piacere sbagliato, miope e molto piccolo, perché non è la passività narcisistica dell’accidia la giusta elaborazione dei nostri fallimenti, ma, ce lo ricorda la saggezza antica, la vita attiva, l’uscir fuori di casa, il mettersi in cammino con sollecitudine...
Per questo una malattia attuale, anche questa endemica e sociale, che assomiglia molto all’antica accidia, è il narcisismo. L’accidia è quindi un grande vizio, perché quando prende piede ci porta a stare male e a vivere male, e se non curata porta a delle vere morti spirituali di persone – ce ne sono tante oggi, se sappiamo vederle, nel mondo dell’impresa e del lavoro –, che dopo una grossa crisi rinunciano a vivere e a far vivere chi è loro accanto, proprio perché incapaci di ricominciare a vivere e far vivere.
Che cosa sia l’accidia, o la melancolia, ce lo dice con la forza tipica della grande arte la misteriosa incisione di Dürer, dove la melancolia (sinonimo, in quel tempo, di accidia e tristezza) è rappresentata da un piccolo essere mostruoso che impedisce all’autore di usare i suoi strumenti di lavoro, che giacciono per terra abbandonati. E sullo sfondo un cielo stellato. Lavoro e stelle, due elementi che durante i tempi dominati dall’accidia cadono assieme. Come negli anni quando fu creato questo capolavoro, che sono quelli del Principe di Machiavelli, del tramonto dell’umanesimo civile, di guerre civili in Italia e di lotte di religione in Europa. E quindi dell’accidia che accompagnava quei tempi di crisi, e accompagna i nostri.
Come per tutti i vizi, la cura più efficace è individuare i primi sintomi e bloccare subito il processo veloce e cumulativo. Non chiudere i processi, lasciare i lavori a metà, non rileggere l’ultima bozza di un articolo, provare tedio per il lavoro ben fatto, ripetere spesso a se stesso: ‘Ma chi me lo fare?’, ‘Non ne vale la pena’. Sono, questi, i primi sintomi di accidia incipiente.
L’antica saggezza dell’etica delle virtù e dei vizi ci suggerisce che quando avvertiamo i primi segnali, dobbiamo reagire subito e «senza indugio» – il vizio consiste nell’assenza di questa reazione decisa, non nel sentire i sintomi. ‘Mi alzerò e andrò da mio padre’: è questa la risposta virtuosa all’accidia a cui basterebbero le ghiande.
Nell’incisione di Dürer insieme agli strumenti del lavoro abbandonati c’è anche il cielo stellato, ma quell’uomo melanconico guarda da un’altra parte. La crisi è devastante quando ci spegne nell’anima i desideri. Il desiderio ha bisogno delle crisi, perché nasce proprio dall’assenza e dalla caduta delle stelle ( de-sidera, cioè mancanza di stelle) e dalla voglia di ritrovarle. Chi cade nell’accidia si accontenta di un cielo abbuiato, non vuol più riveder le stelle. E troppo spesso questo triste accontentarsi dipende dalle solitudini, dalla mancanza della compagnia di qualcuno che sa stare accanto, e che sa portare a riveder le stelle.
Da questa crisi, troppo seria per appaltarla alle sole scelte economiche e finanziarie, usciremo trasformando rassegnazioni, abbattimenti e accidie di molti cittadini e di intere nazioni in nuovi progetti politici e in un nuovo entusiasmo civile, riaggregando solitudini in destini sociali comuni, passioni tristi e sterili in passioni liete e generative, vizi in virtù civili. Ce la faremo?
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