Di Roberto Catalano
Fonte: Città Nuova
Al termine degli scontri tra i sostenitori del
presidente deposto Morsi e i militari si contano diverse centinaia di morti e
migliaia di feriti. Il timore della popolazione adesso sono gli attentati e lo
scoppio di una vera e propria guerra civile, come in Siria
Gli ultimi tragici sviluppi della precaria
situazione dell’Egitto scorrono sui teleschermi di tutto il mondo. Negli ultimi
due giorni è stato difficile riuscire a seguire in tempo reale quanto sta
avvenendo. Ora con il coprifuoco e con lo stato di emergenza dichiarato
dall’esercito si cerca di fare un punto, ma la situazione resta ad altissima
tensione. Abbiamo cercato di tenerci in contatto, per quanto possibile, con le
nostre fonti nella capitale egiziana, che ci hanno tenuti informati sia del
susseguirsi degli eventi che della difficoltà di decifrare un futuro molto
nebuloso e con grandi rischi per tutto il Paese.
«Ovviamente - ci spiegano - gli avvenimenti
di questi giorni debbono essere letti nel contesto di quanto avvenuto dal 30
giugno in poi. Allora il popolo era sceso nelle strade, dimostrando contro il
presidente Morsi, eletto democraticamente l’anno precedente (pur con delle
incognite sulla regolarità del voto), ma che milioni di egiziani non volevano
più come loro capo di Stato. Tale dimostrazione si era ripetuta, in maniera
ancora più forte e con folle ancora più oceaniche, il 26 luglio».
Nello stesso tempo, i Fratelli Musulmani
hanno insistito per un ritorno del presidente, sostenendo che era il primo capo
di Stato eletto democraticamente in Egitto. «Si è cercato un dialogo fra coloro
che da fine giugno avevano preso in mano il potere ed i sostenitori di Morsi. A
fronte della loro richiesta di un ritorno del presidente esautorato -
aggiungono le nostre fonti - c’è stata la proposta del nuovo governo di
partecipare al processo politico che esercito e altre componenti del Paese
avevano avviato il 30 giugno. Ciò che si desiderava evitare era che il potere
fosse gestito da un’unica componente politica. Le trattative, con le la
mediazione anche di Paesi stranieri – Stati Uniti ed Europa - sono durate sei
settimane, mentre i sostenitori di Morsi hanno continuato a dimostrare in due
piazze per ottenere un suo ritorno».
In questo lungo periodo si è assistito ad una
progressiva polarizzazione, che ha accresciuto la tensione fra le due anime del
Paese.
«Da tempo – ci dicono dal Cairo – erano stati
invitati i dimostranti ad abbandonare la piazza di Rabia el Adawiat e, prima di
iniziare lo sgombero, è stato preannunciato che le forze dell’ordine avrebbero
liberato la zona, chiedendo a tutti di lasciare pacificamente le località
occupate. Si è fatto uso di volantini lanciati da elicotteri che sorvolavano le
piazze e di altoparlanti. Si è lasciata libera una strada per permettere il
passaggio a coloro che avrebbero voluto abbandonare le piazze. Un percorso
utilizzato, ma purtroppo solo alla fine delle operazioni militari e dopo che
molti erano caduti».
Dalla capitale egiziana confermano che «è
difficile stabilire chi abbia iniziato a sparare. Un giornalista di Euro News
presente ai fatti ha dichiarato che i primi spari sono partiti dalla piazza di
Rabia el Adawiat. Uno dei primi due a perdere la vita è stato un generale della
polizia. In tutto la polizia ha avuto 43 morti tra cui due generali». Tutto
questo ci dice quanto sia stata dura la battaglia, nel corso della quale non
sono stati risparmiati colpi da una parte e dall’altra.
Le cifre complessive dei morti e feriti che
sono state diramate arrivavano fino a ieri a 525 morti (202 a Rabia el Adawiat,
83 a Anahda, gli altri nelle varie città dell'Egitto) mentre i feriti sono
3.717.
Le nostre fonti ci raccontano che, «senza
dubbio gli scontri sono stati molto violenti, come si poteva vedere in diretta
alla televisione. Dimostranti hanno attaccato vari commissariati di polizia ed
edifici governativi. Anche i cristiani sono stati oggetto di violenza per
cercare di creare un clima di odio fra musulmani e cristiani». Finora sono
stati bruciate almeno 23 chiese in varie città, di cui alcune antichissime, che
la tradizione fa risalire ai primi secoli. Fra queste il Monastero della Santa
Vergine di Anba Abra’am. Sebbene non sia più usata come monastero, l'area
comprende tre chiese ed alcuni centri sociali che assistono la gente dei
villaggi. È stata bruciata anche la chiesa copto-ortodossa di Sohag, a 460
chilometri a sud del Cairo, dove ha sede il vescovo copto-ortodosso della
regione. Si sono registrati vari attacchi anche nella regione di Minya e in
villaggi di diverse parti del Paese.
Attualmente, dopo l’evacuazione dei
dimostranti dalle due piazze, non ci sono più raggruppamenti stabili e la
situazione generale, ci confermano, è, ora senz’altro più calma. Ci sono stati
anche il 15 agosto attentati, ma tutti sono ora preoccupati di quanto succederà
oggi. È venerdì, giorno di preghiera, e potrebbe succedere che si approfitti
dell’assembramento per creare tensioni e scontri.
«Siamo
coscienti - ci dicono - che è impossibile prevedere il futuro del nostro Paese.
Molti temono che abbia inizio un periodo di attentati e che l’Egitto possa
precipitare in una situazione simile alla Siria. Ovviamente si spera in una
soluzione diversa».
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