Di Aurelio Molè
Una scuola a Dawal in Pakistan, in Egitto, in
Italia, che pur in diversi contesti culturali realizza una pedagogia di
comunione. A Castelgandolfo 650 pedagogisti ed educatori si confrontano su
progetti formativi e sulle sfide dell'educare
Arrivando al Centro Mariapoli di Castelgandolfo per
il convegno Learning fraternity, cioè Imparando la fraternità, si ha
l’impressione di respirare su temi alti e buone prassi messe in pratica da 650
educatori dei 5 continenti che si confrontano sulle sfide dell’educazione. Chi
investe nella scuola investe nel futuro e sulle interconnessioni culturali,
sociali, ambientali, economiche riscontrabili anche nel microcosmo di piccole
comunità: anche lontanissime come la scuola pubblica di Dawal, nel Punjab,
nazionalizzata nel 1970, per le travagliate vicende del Paese e poi ridotta ad
uno stato totale di abbandono. Nel 1999 la scuola è stata restituita alla
Chiesa cattolica che l’ha affidata alle focolarine del luogo. La scuola è
ricominciata sotto un albero, all’aperto, senza strutture, le aule non erano
più agibili, ma era una vera scuola perché c’era l’essenziale sin dal
principio: l’umanizzazione, il rispetto di tutte le identità e la relazione, la
testimonianza e il dialogo.
Oggi, corrisponde alla nostra scuola media, conta
209 studenti di cui solo quattro sono cristiani. «Abbiamo soprattutto ‒ dice
Valentina Gomes, la direttrice ‒ cercato di formare coscienze aperte a valori
universali come il rispetto per la libertà religiosa, il perdono, la
condivisione». Una mentalità nuova creata attraverso un gioco e l’insegnamento,
attraverso cinque manuali, di una materia nuova Character Building dove si
sviluppano tematiche legate a valori universali e condivisibili da tutte le
classi. Sono manuali redatti dal basso, collezionando episodi di vita vissuta a
scuola, corredati da rapporti interpersonali tra studenti e insegnanti. Ogni
manuale è strutturato in sei unità come le facce del “dado dell’amore” che ha
l’obiettivo di promuovere la condivisione, il perdono, l’amore verso gli altri.
Dopo averla visitata il vescovo di Rawalpindi ha notato come «in questa scuola
ci sono studenti sikh, indù, cristiani e musulmani che giocano e studiano
insieme in grande armonia, lavorando alla formazione del carattere e alla
costruzione integrale della personalità. Gli studenti sikh pensavano che qui si
vivesse secondo gli insegnamenti dei loro libri sacri, i cristiani ritenevano
che qui si riceveva un’educazione cristiana, gli indù che si applicassero gli
insegnamento del Bawaqida e i musulmani che si trascorrevano le giornate
seguendo i dettami del Corano». Insomma, senza irenismi, ma per una cultura
inclusiva e interculturale a partire da una pedagogia della fraternità.
Dello stesso timbro altre buone prassi di
educazione alla pace come otto scuole internazionali de Il Cairo, in Egitto,
dirette da Carlos Palma, che è riuscito a coinvolgere 1500 ragazzi e insegnanti
di 82 scuole, di 40 Paesi di vari continenti. Da 23 anni, siamo ora in Italia,
a Treviso, Giuseppe Provenzale ha dato vita al Progetto Pace che coinvolge 400
scuole e 100 mila studenti in Italia e in Europa, soprattutto nei Paesi
dell’Est per azioni di solidarietà, viaggi umanitari, campi di solidarietà verso
i Paesi in guerra nell’ex Yugoslavia, per l’integrazione degli immigrati e dei
diversamente abili. Sono tre i pilastri culturali: corsi di formazione su
alterità, cultura della pace e temi di attualità; stage e meeting di educazione
alla pace; concorsi e spettacoli artistici. Le idee forza sono indicate da
Marco Provenzale: «Ci siamo sempre confrontati per dare accesso a tutti gli
studenti di mettersi in gioco, attraverso le idee dei ragazzi, garantendo
sempre la pratica dei valori della solidarietà, della fraternità e della pace,
cercando di diffondere attraverso i media il nostro messaggio».
La prima sessione si è aperta con uno sguardo
prospettico sulla relazione tra educazione e globalizzazione osservato
dall’Argentina Nieves Tapia, direttrice del Clayss di Buenos Aires, che ha
osservato come «con la fraternità si vive in una scuola migliore perché non
bisogna separare la scienza pedagogica e i valori: se li uniamo creiamo quella
che si chiama “apprendimento di servizio”, dal vice rettore dell’università
cattolica di Nairobi in Kenia, Justus Mbae, che ha analizzato gli aspetti
negativi e positivi della globalizazzione e da Giuseppe Milan, professore di
pedagogia dell’università di Padova che ha sottolineato come «il segreto nel
campo educativo è passare dal coltivare per produrre, al coltivare per
custodire il fratello e la comunità per includere le aree periferiche in una
didattica inclusiva e multiculturale perché la fraternità si può imparare».

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