domenica 11 ottobre 2015

Nello sbarco a Lampedusa ero 197

Il 3 ottobre 2013, a pochi metri dalla costa 366 persone morirono per il naufragio di un barcone. Facciamo memoria di questa tragedia raccontando la storia di Tidjane, originario del Burkina e ora residente a Trento. È diventato protagonista di un docufilm che racconta dei viaggi della speranza e delle crudeltà di una traversata di deserti e di mare per garantirsi una vita dignitosa

«Dipende dal tuo cuore, possono starci tutti se il tuo cuore li accoglie». Tidjane, 22 anni, del Burkina Faso risponde così a chi gli chiede «quanti migranti possiamo accogliere in Italia». Tidjane è il protagonista del docufilm “Ero 197”, ideato e girato dal regista Donato Chiampi. Affrontare il problema delle migrazioni, la tragedia della Tratta atlantica e del post colonialismo con le sue guerre per le materie prime, in circa trenta minuti di immagini non è semplice. Chiampi ha scelto di farlo raccontando la storia di un migrante giunto a Lampedusa nel 2011 e poi assegnato alla città di Trento dove ha studiato e cerca di costruirsi un nuovo presente. Mentre la storia scorre tra il mar Mediterraneo e i ruscelli trentini non si viene assaliti dall’angoscia della pseudo-invasione, né dai tutti quei luoghi comuni che accompagno gli sbarchi dal mare o le traversate balcaniche via terra: c’è un ragazzo e la sua storia che si intreccia con la storia dell’Italia di oggi.

Dietro la cinepresa il volto di Tidjane, i suoi gesti, i sorrisi e i silenzi raccontano di tre anni vissuti tra il deserto del Ténéré in Niger, il Sahara in Libia e a Tripoli durante la miope guerra contro Gheddafi che non ha garantito poi un reale governo della regione, ancora instabile e incapace di gestire i flussi migratori dal Sud del mondo. Tidjane non si sottrae alle domande sulla sua vicenda e risponde con un italiano sicuro.

Perché sei partito dal Burkina?
A 15 anni ho deciso di andare in Libia per lavorare, aiutare la famiglia, far studiare le mie sorelline. Avevo studiato la lingua araba e pensavo che sarebbe stato facile, invece non era così. Non l’ho detto a nessuno, neanche ai miei, altrimenti non mi avrebbero lasciato andare. Sono partito con pochi soldi.

Quali sono state le tappe del viaggio?
Sono andato a Niamey, capitale del Niger. Poi ho preso un pullman per andare in un’altra città nel deserto che si chiama Agadez. All’ingresso di Agadez si paga la polizia. Non avevo più soldi e ho dovuto fermarmi e cercare lavoro. Lì ho trovato amici del Burkina Faso e abbiamo deciso di andare insieme in Libia.

Come funzionano questi viaggi?
Ci sono organizzazioni che quando hanno radunato un buon numero di persone programmano la partenza. Ognuno deve avere con sé una tanica di venti litri d’acqua. Da mangiare avevo la farina di manioca, polvere di latte e zucchero. Siamo andati a Dirkou, con un grosso camion; sopra ci stavano le persone e sotto pecore, capre, sacchi di mais, miglio.

Quanto sono pericolosi?
Partendo per Dirkou, si vedono tanti cumuli di pietre: sono le persone che non ce l’hanno fatta. Da Dirkou abbiamo impiegato alcuni giorni per arrivare a Madama e lì ho visto persone che non avevano i soldi per andare avanti e nemmeno per tornare indietro. Erano destinate a morire perché anche per entrare in Libia dobbiamo pagare. Ci sono Toyota Pick-Up che ci aspettano e trasportano fino a 32 persone per volte.

Come facevate a starci tutti?
La cabina è doppia, ci stanno 11 persone, ci si siede sulle gambe di altri, quando si è stanchi, si cambia. Le altre 21 sono nel piccolo cassone del Pick-Up. Quelli seduti con le gambe fuori dalle sponde dovevano proteggersi con un bastone tra le gambe per evitare di cadere. Sapevano che alcuni autisti non si fermano a raccogliere chi cade.

E la traversata del deserto?
Durante il viaggio abbiamo incontrato i militari. Ci hanno portati in un “campo” dove siamo rimasti alcuni giorni, poi ci hanno condotti in prigione. Io ho perso i documenti. Nella cella c’erano tante persone, non c’era acqua buona da bere, non c’era da mangiare. Alcuni giorni dopo i guardiani della prigione hanno avuto pietà di noi e ci hanno fatto scappare. La sera verso le 6 hanno aperto il portone e hanno inscenato un tentativo di fuga, facendo scattare l’allarme per riprenderci, ma era una scusa per giustificarsi con i capi. Abbiamo corso nel deserto fino alle 5 di mattina.

Cosa hai fatto dopo?
Ho lavorato e cambiato ancora città. Rimasto senza occupazione ho deciso di andare a Tripoli dove ho trovato lavoro. Dopo un anno è cominciata la guerra e bombardavano vicino a casa mia. Così mi sono trasferito dai miei amici del Burkina. La polizia ci ha trovato e minacciandoci hanno preso tutto quello che avevamo: soldi, telefonini… Ci hanno arrestato e dopo 3 settimane, una sera, ci hanno portato su una spiaggia. Con delle barche ci hanno trasferito su un barcone, eravamo in 600. Io non sapevo dove stavo andando ma sapevo che non potevo tornare indietro. Sbarcato a Lampedusa mi hanno dato il numero 197 e quel numero mi ha aperto le porte dell’Italia.

Il docufilm “ero 197” si inserisce in un progetto di formazione sulle migrazioni a partire dagli articoli della Costituzione sulla pari dignità delle persone e sul diritto d’asilo. Per informazioni scrivere a: donatoch@infinito.it

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