venerdì 12 febbraio 2016

Il principio di fraternità esiste?

In occasione del convegno “La cattedra del dialogo”, abbiamo intervistato il prof. Filippo Pizzolato, docente di Istituzioni di diritto pubblico presso la Bicocca e di Dottrina dello Stato presso l’università cattolica del Sacro Cuore di Milano, su come declinare in politica la dimensione della "cura dell'altro"

“Il principio, etico e giuridico, di fraternità non prevede scarti sociali” è stato il titolo di uno degli incontri ospitati presso la diocesi di Reggio Calabria-Bova del ciclo la “Cattedra del dialogo”. Il coordinatore delle iniziative, prof. Antonino Spadaro, spiega così il senso del “dialogo”: «L’obiettivo, di fronte a integralismi e chiusure di varia natura, è quello di creare un luogo e un’occasione di incontro fra credenti di altre religioni, e credenti e non credenti, nella speranza di realizzare un libero e fecondo confronto culturale». “La cattedra del dialogo”, al suo nono anno consecutivo, ha preso dentro la dimensione universitaria della città di Reggio, collocandola nell’ambito della pastorale universitaria, in stretta collaborazione con il Meic e l’Istituto superiore di formazione politico sociale, “Mons. Antonio Lanza”. A presentare il principio giuridico di fraternità il prof. Filippo Pizzolato, docente di Istituzioni di diritto pubblico presso l’università Milano- Bicocca e di Dottrina dello Stato presso l’università cattolica del Sacro Cuore di Milano. A margine del convegno gli abbiamo posto qualche domanda.

Come mai si è interessato all’approfondimento giuridico del principio di fraternità, cosa l’ha attratta?
«In prima battuta sono rimasto colpito dal fatto che già nei primi commenti sistematici all’art. 2 della nostra Costituzione, siamo ancora nel 1948, personaggi come Antonio Amorth, associavano alla solidarietà, così come esplicitata nell’art. 2, il principio di fraternità, volendo dire che una delle dimensioni della solidarietà è la fraternità, anche se quest’ultimo principio testualmente non è mai citato nella nostra Carta costituzionale».

Questo significa che si possono superare con più facilità gli ostacoli al riconoscimento giuridico del principio di fraternità?
«Le difficoltà maggiori a mio avviso possono essere di due tipi. La prima è che occorre superare le resistenze che a tutt’oggi si avvertono attorno a questo principio. Resistenze soprattutto di carattere culturale che intravedono nella fraternità un concetto sponsorizzato magari solo da una parte e per ragioni di comodo, in quanto storicamente esso è stato legato a orizzonti religiosi. Ma già nel periodo della rivoluzione francese il concetto di fraternità incontrava resistenza perché veniva associato alla cultura cattolica connivente in quel periodo con l’ancien régime. Inoltre il termine stesso può avere tante accezioni, perfino non troppo positive, cosa che può avvenire quando una confraternita guarda a chi sta dentro, e non è proiettata verso l’esterno o guarda chi è fuori addirittura con ostilità o indifferenza. Questo per dire che di per sé è un termine che porta con sé delle insidie. Secondariamente occorre stare attenti a non cadere nella retorica, ciò può avvenire quando si insegue la fraternità come principio ma essa non è accompagnata dalle buone pratiche. Occorre dunque sobrietà e concretezza».

Questa sera le è stato chiesto un intervento sulla fraternità che non prevede scarti sociali, qual è stata la sua riflessione?
«Ho voluto riprendere la definizione di scarti sociali utilizzata da papa Francesco, cioè quella di esclusi dalla società. Ora la fraternità invece è inclusiva e i credenti devono proporla come principio per tutti. Perché la vera sfida è quella di declinare il principio anche per chi non ha un orizzonte di fede. Cioè occorre non dare la percezione che si voglia convertire l’altro, ma invitare l’altro a costruire la città insieme a noi. Noi cattolici non possiamo appoggiarci al potere per vedere andare avanti le nostre istanze, questo può portare a risultati nel breve termine, anche perché appena l’altro è al potere ce la farà pagare. Oggi la cultura dello scarto non è casuale ma è frutto della logica con cui si intende la libertà. L’uomo invece deve riconoscere la propria vulnerabilità, di essere un soggetto fragile, questo ci affratella e in questo siamo corresponsabili della cura dell’altro. Non si può agire come se avessimo solo diritti senza doveri, come se fossimo indipendenti dagli altri e l’altro fosse una minaccia. Invece ci si affratella per una compartecipazione a una sorte che è anche comune, in una sorta di interdipendenza tra le persone che si traduce in rapporti di solidarietà».

Quale contributo allora può apportare la cultura cattolica alla declinazione del principio di fraternità in politica?
«Lo sforzo che dobbiamo fare è quello di provare a capire se la fraternità è un termine che è adatto anche alla politica. A mio avviso sì, anche se la dobbiamo “mediare” antropologicamente, per noi l’essere figli di unico Padre è il principio da mediare. Noi cattolici dobbiamo trovare la forza per fare questo, in quanto i nostri valori sono importanti perché sono propri dell’uomo in quanto tale. Inoltre siamo davanti a un principio esigente che prima di tutto va testimoniato in quanto credenti. Per tornare al discorso della libertà, essa non è patrimonio naturale dell’uomo, cioè non nasciamo liberi, ma è una conquista ottenuta grazie ad altri. Quindi già la mia libertà deve riconoscere un debito che io devo ricambiare con la cura dell’altro. Se non si riconosce una libertà “responsabile” della sorte del fratello, si sega il ramo su cui si è seduti, cioè i rapporti sociali. La libertà si realizza nella relazione, non nella competizione, ma nella cooperazione, in quanto le vite di ciascuno non viaggiano su corsie parallele».

Patrizia Labate - Fonte: CittàNuova.it

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