giovedì 6 giugno 2013

Sharing with Africa, primi passi

Una ragazza italiana racconta da osservatrice diretta l’avvio del progetto di condivisione col continente africano che vede impegnati i giovani dei Focolari, all’interno del più ampio United World Project. Un viaggio “di sola andata”.
«Siamo arrivate alla Mariapoli Piero (Nairobi, Kenya) la mattina del 10 maggio, accolte come sanno fare gli Africani: sorrisi e abbracci gratuiti per tutti! Questo perché al centro delle loro giornate c’è la persona, e lo abbiamo scoperto attraverso le loro vite, i racconti delle loro tribù che ci sono state presentati durante la Scuola d’Inculturazione.
È stato arricchente entrare in tutte queste culture, scoprirne i punti in comune e ciò che invece le distingue. Oltre a chi era giunto dai paesi dell’Africa subsahariana, erano presenti una quindicina di giovani provenienti dai paesi vicini al Kenya: Uganda, Tanzania, Burundi, Ruanda, ma anche Madagascar, Zambia, Angola, Malawi…due dal Sudamerica che vivono per un periodo nella cittadella e noi 5: oltre me, Chiara, Giulia, Aurelio e Paula.
Ci è stata spiegata la nascita del progetto e proposte due attività: raggiungere i Samburu nella Savana e vivere con loro 4 giorni intervistandoli e conoscendone le radici e il perché della loro cultura; prestare il proprio aiuto fra il centro nutrizionale di Madare, slum di Nairobi, e Njabini, villaggio a 2600 metri di altezza. In un gruppo di 8 abbiamo deciso per la seconda attività.
Il primo giorno siamo stati accolti in una cappella di latta, di giorno centro nutrizionale e di sera Tempio di Dio. La realtà dello slum è pesante, c’è una condizione di miseria assoluta, un degrado sociale che tocca il disumano, eppure si innalza la dignità della persona che non molla e che si aggrappa a quell’unica certezza: Dio Amore.
Alcune suore italiane, missionarie a Madare dagli anni Settanta, ci hanno confermato quanto sia forte la fede, e quanto questa porti all’aiuto reciproco. La stessa responsabile del centro nutrizionale è nata e cresciuta nello slum; ora, abbracciata la spiritualità dell’unità, ha messo in piedi questa attività dove, oltre ad assicurare un’istruzione minima e due pasti al giorno, insegna ai bambini l’arte di amare attraverso il dado dell’amore. Questi, arrivati a casa, irradiano tutta la famiglia sfidandosi a vicenda in una gara d’amore che rende anche la vita spiritualmente più piena.
Il giorno seguente a Njabini. Dopo 3 ore di viaggio, siamo stati accolti da una famiglia composta da Mama Julia, Papa Joseph, Mary, Absunta e Anthony, originari della tribù Kikuyu. Siamo stati con loro 3 giorni, aiutando nei lavori domestici, nei campi e con il bestiame. L’ultima sera, durante un momento di condivisione, ho proprio sentito che quella era ormai diventata la mia famiglia, e non mi sono più sentita una “mzungu” (bianca) in mezzo a loro! E mama Julia ci ha confidato: “Prima che arrivaste pensavo di avere quattro figli, ora sento di averne 8 in più!”.
Sento di non essere tornata, perché credo che i viaggi siano di sola andata. Qualcosa in me è cambiato per sempre: sono arricchita di una cultura diametralmente opposta alla mia, e più consapevole dei punti di forza e di debolezza del mio modo di vivere. Una cosa è sicura, ho fatto della filosofia dell’”Ubuntu” la mia filosofia di vita: posso realizzarmi come persona solo nel momento in cui entro in relazione con l’Altro e lo metto al centro della mia vita. Che poi, in fondo, si tratta di quell’amore al fratello predicato da un Tale più di duemila anni fa e che la nostra Chiara ci ha puntualmente ricordato».
(Elena D. – Italia)

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