di Luigino Bruni
C’è una nota che accomuna molte forme di malessere non inevitabile che
affliggono la nostra società: l’urgenza di rieducare le nostre passioni e i
nostri sentimenti. Una passione da rieducare presto è l’invidia, tra le
più devastanti in ogni cultura, molto pericolosa nei tempi di crisi. Le culture
del passato, a differenza della nostra, conoscevano i disastri prodotti
dall’invidia non curata e gestita, e così avevano sviluppato un’etica idonea ad
orientarla al bene o quanto meno ad arginarla.
La regola d’oro – ‘fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te’
– può anche essere letta come una cura preventiva dell’invidia. Non a caso è
posta dalla Bibbia al centro della prima fraternità-fratricidio di Caino. La
nostra civiltà, però, fa molta fatica a capire l’invidia. La confonde con
un’idea errata di competizione (battere gli altri), la quale viene addirittura
presentata come l’unica strada per orientare al bene comune la natura invidiosa
della persona.
Non la vediamo dietro alle crescenti invocazioni della meritocrazia, cioè del merito nostro e del demerito (o “fortuna”) degli altri. Non
la riconosciamo dietro denunce e querele, e così non facciamo regole per
bloccare sul nascere troppi processi evidentemente ‘invidiosi’, che
assorbono immense energie morali ed economiche di cittadini e tribunali. Non la
smascheriamo nella corsa al “consumo posizionale”, che ci fa indebitare
per raggiungere i livelli di consumo di colleghi e vicini e di casa, un’invidia
sociale che la pubblicità tende ad amplificare e il mercato a sfruttare per
vendere le sue merci, aumentando il Pil e l’infelicità – eliminare la
componente ‘invidiosa’ del Pil sarebbe un primo passaggio verso una misurazione
del benessere reale di un Paese.
Eppure l’invidia è molto semplice da individuare: è soffrire per
il bene altrui, gioire per il suo male, e poi agire per creare quel male o
ridurre quel bene. In tedesco esiste una parola (Schadenfreude) che
esprime esattamente quel sentimento di compiacimento che può nascere in noi
quando qualcuno ci comunica una brutta notizia che lo riguarda.
Perché però si cada nel vizio, e spesso dal vizio si passi al danno e
persino al reato, occorre che la passione generi azioni. Non è il semplice
“desiderio” della “roba d’altri” a violare il comandamento. Ce lo suggerisce
anche il significato del verbo ebraico hamad: nel Decalogo lo traduciamo
con “desiderare”, ma la sua semantica indica l’atteggiamento di chi delibera di
agire per ottenere ciò che desidera (male). In realtà, se un sentimento o un
pensiero cattivo non viene combattuto sul nascere, prima o poi si traduce anche
in opere, parole, omissioni.
Nell’invidia esiste poi un fondamentale meccanismo di reciprocità
negativa. Poiché so che tu stai provando invidia per il mio successo, anche
io, se sono invidioso, provo un piacere subdolo a raccontarti le mie vittorie
(e a tacerti le mie sventure). E così si generano spirali di mali
relazionali, di cui siamo ogni giorno spettatori e protagonisti, circoli
viziosi spezzati solo dalla presenza di persone magnanime. La presenza
di persone magnanime è un grande dono per una comunità, perché, essendo
anti-invidiose, moltiplicano le gioie e riducono i dolori. Ma non si
diventa magnanimi senza una profonda vita spirituale e quindi un costante
esercizio dell’agape – sia l’eros che la philia possono
produrre invidia, solo l’agape è per natura anti-invidiosa. La
famiglia è, o dovrebbe essere, il principale luogo dove si svolge il
gioco di specchi virtuoso dell’anti-invidia. Una delle più grandi forme di
povertà del nostro tempo è quella che vivono i tanti che non hanno persone
anti-invidiose con cui condividere le grandi sventure e le grandi gioie
dell’esistenza.
L’invidia, come già ricordava Aristotele, si sviluppa solo verso i
nostri pari. Da studenti non si è invidiosi dei professori, ma dei
compagni. Non si invidiava l’imperatore, né il padrone. Verso i ‘superiori’
scattano altri sentimenti: rabbia, ammirazione, l’imitazione e magari la
speranza di diventare un giorno come loro. Non si invidiano i genitori, ma i
fratelli. Un segnale inequivocabile di invidia è la sindrome dell’ “anche
se …”, quella nota negativa con cui l’invidioso termina ogni
apprezzamento (“è un’ottima persona, anche se …”). Le società castali, dalle
civiltà antiche alle grandi imprese capitalistiche, sono anche un tentativo di
limitare lo sviluppo dell’invidia. L’ideale di ogni società gerarchica perfetta
è la costruzione di organizzazioni sociali dove i pari siano il meno possibile,
e ognuno abbia solo superiori e inferiori. Gli esseri umani fanno fatica non tanto
a comandare o ubbidire, ma a rapportarsi positivamente con i pari. Le società
globalizzate e più ugualitarie aumentano moltissimo il numero dei pari, e
quindi la possibilità dell’invidia.
Ma non dobbiamo dimenticare che quando ci confrontiamo con chi sentiamo
migliori di noi, insieme alla possibile invidia sorge spesso anche la stima e il
desiderio di cooperazione. Quando un mio pari ottiene un miglioramento e
siamo in un contesto statico, dove la ‘torta’ è data ed è una sola, quel suo
vantaggio può facilmente tradursi in un mio svantaggio, in un “gioco a somma
zero” (dove i guadagni dell’uno sono uguali alle perdite dell’altro). E qui
scattano il sentimento e spesso le azioni, dell’invidia.
Ma in realtà le relazioni sociali che sono oggettivamente un “gioco a
somma zero” sono soltanto una piccola minoranza. La vita in comune,
quando funziona, è invece una grande fabbrica cooperativa, un insieme di
relazioni di mutuo vantaggio per crescere insieme. L’invidia coltivata
ci fa allora perdere molte occasioni di mutuo vantaggio, perché ci porta a
leggere soggettivamente il mondo come un luogo di continuo confronto rivale e
distruttivo con gli altri, e non come un insieme di opportunità di reciprocità.
Ecco perché molto spesso l’invidia è una scorciatoia sbagliata in un rapporto
nel quale non siamo stati capaci di vedere e trovare una buona reciprocità.
L’invidia può essere una stima che non giunge a maturazione per insufficiente
magnanimità.
Nei tempi di crisi si accentua la tendenza a leggere i rapporti con gli
altri in termini rivali e invidiosi, come ‘giochi a somma zero’. Le crisi
alimentano le invidie e da queste sono alimentate. È quindi in questi
tempi che l’educazione all’anti-invidia, alla magnanimità, alla stima dei
nostri pari è particolarmente preziosa, cominciando come sempre dalla
famiglia e dalla scuola per arrivare alle istituzioni (sistema fiscale, schemi
d’incentivi nelle imprese …), che non devono generare il loglio dell’invidia ma
il buon grano della cooperazione.
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