La lettera a chi non crede, scritta da Papa Francesco in
risposta alle domande di Eugenio Scalfari, ha suscitato moltissime reazioni,
per lo più di stupore e apprezzamento. Un aspetto del dialogo, tuttavia, quello
che a me pare in assoluto il più intrigante per tutti, non mi sembra sia stato
evidenziato dai più. Si tratta del carattere del tutto “post-moderno” di questo
intreccio dialogico. Esso è tutt'altro che un ennesimo processo illuministico
alla pretesa della fede.
Dio non è stato chiamato a difendersi di fronte agli
interrogativi e alle sfide della ragione, com’era nella classica “teodicea” - o
giustificazione del divino - di moda dagli albori del Secolo dei Lumi in poi,
alla scuola di Leibnitz.
Non si è trattato neanche, da parte di Francesco, della
classica difesa apologetica della fede, tradizionalmente impegnata sul triplice
fronte della causa di Dio, della rivelazione cristiana e della Chiesa. Le
visioni dell’uomo, del divino e dell’altro, entrate in gioco, sono del tutto “post-moderne”,
in certo modo “post-illuministe” e “post-apologetiche”, tanto da parte del non
credente, quanto da parte del Vescovo di Roma. Vediamo perché.
La visione dell’uomo che si rivela nei due interlocutori
non è quella prometeica delle grandi “narrazioni” ideologiche della modernità:
l’umano, di cui Scalfari si fa voce, è fragile, consapevole della sua caducità,
anche se non ignaro delle sue potenzialità. È l’uomo fallibile, che non esita a
mettere in conto la possibilità della colpa, anche se - rifiutando l’orizzonte
della trascendenza divina - si chiede come essa possa essere riconosciuta e
perdonata. “Se una persona non ha fede né la cerca, ma commette quello che per
la Chiesa è un peccato, sarà perdonato dal Dio cristiano?”, chiede. E aggiunge:
“Il credente crede nella verità rivelata, il non credente crede che non esista
alcun ‘assoluto’ ma una serie di verità relative e soggettive. Questo modo di
pensare per la Chiesa è un errore o un peccato?”.
È estremamente interessante quest’interrogarsi di chi non
crede sulla qualità etica delle scelte e dei comportamenti e sullo spessore che
essi possano avere nell’ottica di chi crede nel Dio che giudica e perdona. Si
tratta di un segnale importante: al di là dell’aver fede o no, l’uomo che ha
conosciuto i drammi del Novecento, le guerre mondiali e i genocidi, a
cominciare dalla Shoah, non ha più nulla di quella presunzione d’innocenza
della ragione, che sembrava ammaliare le ideologie illuminate, giustificando le
più grandi atrocità in nome della causa. A quest’uomo - genialmente
interpretato da Scalfari - Francesco risponde da pastore, non da maestro
distante e asettico: “Mi chiede se il Dio dei cristiani perdona chi non crede e
non cerca la fede. Premesso che - ed è la cosa fondamentale - la misericordia
di Dio non ha limiti se ci si rivolge a lui con cuore sincero e contrito, la
questione per chi non crede in Dio sta nell’obbedire alla propria coscienza. Il
peccato, anche per chi non ha la fede, c’è quando si va contro la coscienza”.
Queste parole non sono l’esaltazione del tribunale della ragione chiusa in se
stessa e fine a se stessa, ma l’appello largamente umano alla voce interiore
che guida chiunque voglia ascoltarla, espressa in maniera universale nel grande
codice che è il Decalogo.
Misericordia divina e responsabilità umana s’incontrano
nel confine altissimo della coscienza, dove il no a ogni estrinsecismo morale,
come ad ogni relativismo etico, si congiunge al sì alla legge formulata da
Agostino all’inizio delle sue Confessioni: “Fecisti nos ad Te, et inquietum est
cor nostrum, donec requiescat in Te”. Francesco sa che il più grande alleato di
Dio è il cuore umano e non teme la fede nell’uomo del suo interlocutore, perché
essa è porta all’abisso del cuore.
La visione di Dio evocata nel dialogo è tutt’altra da
quella delle moderne polemiche razionalistiche e delle argomentazioni
apologetiche di risposta ad esse. Da parte sua, il non credente chiede: “La
modernità illuminista ha messo in discussione il tema dell’‘assoluto’, a
cominciare dalla verità. Esiste una sola verità o tante quante ciascun
individuo ne configura? I Vangeli e la dottrina della Chiesa affermano che l’Unigenito
di Dio si è fatto carne... Le altre religioni monoteiste, l’ebraica e l’Islam,
prevedono un solo Dio, il mistero della Trinità gli è del tutto estraneo. Il
cristianesimo è dunque un monoteismo alquanto particolare. Come si spiega per
una religione che ha come radice il Dio biblico, che non ha alcun Figlio
Unigenito e non può essere né nominato né tantomeno raffigurato, come del resto
Allah?”.
Nella risposta a questi interrogativi, Francesco tocca il
vertice della sua attitudine dialogico-pastorale: “Io non parlerei, nemmeno per
chi crede, di verità assoluta, nel senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò
che è privo di ogni relazione. Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è l’amore
di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la verità è una relazione! Tant’è vero
che anche ciascuno di noi la coglie e la esprime a partire da sé: dalla sua
storia e cultura, dalla situazione in cui vive, ecc. Ciò non significa che la
verità sia variabile e soggettiva, tutt’altro. Ma significa che essa si dà a
noi sempre e solo come un cammino e una vita... La verità essendo in definitiva
tutt’uno con l’amore, richiede l’umiltà e l’apertura per essere cercata,
accolta ed espressa”. Il Dio dei cristiani è insomma tutt’altro dall’Assoluto
della ragione illuminista: e ciò perché, in quanto è amore in se stesso e verso
la creatura, è tutt’altro che “ab-solutus”, sciolto da relazioni e legami, è
anzi relazione di dono e accoglienza in se stesso, come unità dell’Amante, dell’Amato
e dell’Amore, e verso di noi, come amore che accoglie, dona e perdona. Un Dio
vicino, Padre e Madre nell’amore, ricco di misericordia e grande nel perdono,
non un Sovrano freddo e straniero, giustiziere implacabile. Un Dio che, come
ama ripetere Papa Francesco, non si stanca mai di offrirci la sua misericordia,
anche quando noi sembriamo stanchi di domandarla
È, infine, la visione dell’altro, che - nel dialogo fra i
due - è lontana dal sogno moderno di dominare la terra e di plasmarla a misura
della ragione illuminata, sogno che ha prodotto mostri di tirannia e di
violenza. Il caso serio - emblematico per tutti - è quello della considerazione
del popolo ebraico. Scalfari chiede: “Dio promise ad Abramo e al popolo eletto
di Israele prosperità e felicità, ma questa promessa non fu mai realizzata e
culminò, dopo molti secoli di persecuzioni e discriminazioni, nell'orrore della
Shoah. Il Dio di Abramo, che è anche quello dei cristiani, non ha dunque
mantenuto la sua promessa?”. Francesco risponde: “Che cosa dire ai fratelli
ebrei circa la promessa fatta loro da Dio: è essa del tutto andata a vuoto? È
questo - mi creda - un interrogativo che ci interpella radicalmente, come
cristiani, perché, con l’aiuto di Dio, soprattutto a partire dal Concilio
Vaticano II, abbiamo riscoperto che il popolo ebreo è tuttora, per noi, la
radice santa da cui è germinato Gesù. Anch’io, nell’amicizia che ho coltivato
lungo tutti questi anni con i fratelli ebrei, in Argentina, molte volte nella
preghiera ho interrogato Dio, in modo particolare quando la mente andava al
ricordo della terribile esperienza della Shoah. Quel che Le posso dire, con l’apostolo
Paolo, è che mai è venuta meno la fedeltà di Dio all’alleanza stretta con
Israele e che, attraverso le terribili prove di questi secoli, gli ebrei hanno
conservato la loro fede in Dio. E di questo, a loro, non saremo mai
sufficientemente grati, come Chiesa, ma anche come umanità”. Come ha osservato
Riccardo Di Segni, “dopo secoli di predicazione cristiana contro la ‘superstizione
giudaica’ e la vanità dell’attesa messianica, oggi la fedeltà ebraica diventa
un modello per i cristiani e per l’umanità, e questa è una svolta non
improvvisa, ma molto significativa, di cui anche gli ebrei dovranno prendere
coscienza”.
L’altro non è minaccia, ma ricchezza, non pericolo, ma
possibile modello e dono. Gesù, ebreo di nascita e per sempre, non potrà non
essere contento di questa parola di verità e d'amore del Successore di Pietro.
Gli odi, fomentati dall’ideologia moderna, sono tragiche memorie del passato. “È
venuto ormai il tempo - scrive Francesco -, e il Vaticano II ne ha inaugurato
la stagione, di un dialogo aperto e senza preconcetti che riapra le porte per
un serio e fecondo incontro” con l’altro, con ogni altro.
Bruno Forte è Arcivescovo di Chieti-Vasto
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