Nel giorno del compleanno di Papa Francesco, presentiamo
alcune risposte date a «La Stampa»
Andrea Tornielli (vatican insider)
Il Natale viene spesso presentato come fiaba zuccherosa. Ma Dio nasce in un
mondo dove c’è anche tanta sofferenza e miseria.
«Quello che leggiamo nei Vangeli è un annuncio di gioia. Gli evangelisti
hanno descritto una gioia. Non si fanno considerazioni sul mondo ingiusto, su
come faccia Dio a nascere in un mondo così. Tutto questo è il frutto di una
nostra contemplazione: i poveri, il bambino che deve nascere nella precarietà.
Il Natale non è stata la denuncia dell’ingiustizia sociale, della povertà, ma è
stato un annuncio di gioia. Tutto il resto sono conseguenze che noi traiamo.
Alcune giuste, altre meno giuste, altre ancora ideologizzate. Il Natale è gioia, gioia religiosa, gioia
di Dio, interiore, di luce, di pace. Quando non si ha la capacità o si è in
una situazione umana che non ti permette di comprendere questa gioia, si vive
la festa con l’allegria mondana. Ma fra la gioia profonda e l’allegria mondana
c’è differenza».
In gennaio saranno cinquant’anni dallo storico viaggio di Paolo VI in Terra
Santa. Lei ci andrà?
«Natale sempre ci fa pensare a Betlemme, e Betlemme è in
un punto preciso, nella Terra Santa dove è vissuto Gesù. Nella notte di Natale
penso soprattutto ai cristiani che vivono lì, a quelli che hanno difficoltà, ai
tanti di loro che hanno dovuto lasciare quella terra per vari problemi. Ma
Betlemme continua a essere Betlemme. Dio è venuto in un punto determinato, in
una terra determinata, è apparsa lì la tenerezza di Dio, la grazia di Dio. Non
possiamo pensare al Natale senza pensare alla Terra Santa. Cinquant’anni fa
Paolo VI ha avuto il coraggio di uscire per andare là, e così è cominciata
l'epoca dei viaggi papali. Anch’io desidero andarci, per incontrare il mio
fratello Bartolomeo, patriarca di Costantinopoli, e con lui commemorare questo
cinquantenario rinnovando l’abbraccio tra Papa Montini e Atenagora avvenuto a
Gerusalemme nel 1964. Ci stiamo preparando».
Lei ha incontrato più volte i bambini gravemente ammalati. Che cosa può
dire davanti a questa sofferenza innocente?
«Un maestro di vita per me è stato Dostoevskij, e quella
sua domanda, esplicita e implicita, ha sempre girato nel mio cuore: perché soffrono i bambini? Non c’è
spiegazione. Mi viene questa immagine: a un certo punto della sua vita il
bambino si “sveglia”, non capisce molte cose, si sente minacciato, comincia a
fare domande al papà o alla mamma. È l’età dei “perché”. Ma quando il figlio
domanda, poi non ascolta tutto ciò che hai da dire, ti incalza subito con nuovi
“perché?”. Quello che cerca, più della spiegazione, è lo sguardo del papà che
dà sicurezza. Davanti a un bambino sofferente, l’unica preghiera che a me viene
è la preghiera del perché. Signore perché? Lui non mi spiega niente. Ma sento
che mi guarda. E così posso dire: Tu sai il perché, io non lo so e Tu non me lo
dici, ma mi guardi e io mi fido di Te, Signore, mi fido del tuo sguardo».
Parlando della sofferenza dei bambini non si può dimenticare la tragedia di
chi soffre la fame.
«Con il cibo che avanziamo e buttiamo potremmo dar da
mangiare a tantissimi. Se riuscissimo a non sprecare, a riciclare il cibo, la
fame nel mondo diminuirebbe di molto. Mi ha impressionato leggere una
statistica che parla di 10mila bambini morti di fame ogni giorno nel mondo. Ci
sono tanti bambini che piangono perché hanno fame. L’altro giorno all’udienza
del mercoledì, dietro una transenna, c’era una giovane mamma col suo bambino di
pochi mesi. Quando sono passato, il bambino piangeva tanto. La madre lo
accarezzava. Le ho detto: signora, credo che il piccolo abbia fame. Lei ha
risposto: sì sarebbe l’ora... Ho replicato: ma gli dia da mangiare, per favore!
Lei aveva pudore, non voleva allattarlo in pubblico, mentre passava il Papa.
Ecco, vorrei dire lo stesso all’umanità: date da mangiare! Quella donna aveva
il latte per il suo bambino, nel mondo abbiamo sufficiente cibo per sfamare
tutti. Se lavoriamo con le organizzazioni umanitarie e riusciamo a essere tutti
d’accordo nel non sprecare il cibo, facendolo arrivare a chi ne ha bisogno,
daremo un grande contributo per risolvere la tragedia della fame nel mondo. Vorrei ripetere all’umanità ciò che ho
detto a quella mamma: date da mangiare a chi ha fame! La speranza e la
tenerezza del Natale del Signore ci scuotano dall’indifferenza».
Alcuni brani dell’«Evangelii Gaudium» le hanno attirato le accuse degli
ultra-conservatori americani. Che effetto fa a un Papa sentirsi definire
«marxista»?
«L’ideologia marxista è sbagliata. Ma nella mia vita ho
conosciuto tanti marxisti buoni come persone, e per questo non mi sento
offeso». Le parole che hanno colpito di più sono quelle sull’economia che «uccide»... «Nell’esortazione non c’è nulla che
non si ritrovi nella Dottrina sociale della Chiesa. Non ho parlato da un punto
di vista tecnico, ho cercato di presentare una fotografia di quanto accade. L’unica
citazione specifica è stata per le teorie della “ricaduta favorevole”, secondo
le quali ogni crescita economica, favorita dal libero mercato, riesce a
produrre di per sé una maggiore equità e inclusione sociale nel mondo. C’era la promessa che quando il bicchiere
fosse stato pieno, sarebbe trasbordato e i poveri ne avrebbero beneficiato.
Accade invece che quando è colmo, il bicchiere magicamente s’ingrandisce, e
così non esce mai niente per i poveri. Questo è stato l’unico riferimento a
una teoria specifica. Ripeto, non ho parlato da tecnico, ma secondo la dottrina
sociale della Chiesa. E questo non significa essere marxista».
L’unità dei cristiani è una priorità per lei?
«Sì, per me l'ecumenismo è prioritario. Oggi esiste l'ecumenismo del sangue. In alcuni
paesi ammazzano i cristiani perché portano una croce o hanno una Bibbia, e prima
di ammazzarli non gli domandano se sono anglicani, luterani, cattolici o
ortodossi. Il sangue è mischiato. Per coloro che uccidono, siamo cristiani.
Uniti nel sangue, anche se tra noi non riusciamo ancora a fare i passi
necessari verso l’unità e forse non è ancora arrivato il tempo. L’unità è una
grazia, che si deve chiedere. Conoscevo ad Amburgo un parroco che seguiva la
causa di beatificazione di un prete cattolico ghigliottinato dai nazisti perché
insegnava il catechismo ai bambini. Dopo di lui, nella fila dei condannati, c’era
un pastore luterano, ucciso per lo stesso motivo. Il loro sangue si è
mescolato. Quel parroco mi raccontava di essere andato dal vescovo e di avergli
detto: “Continuo a seguire la causa, ma di tutti e due, non solo del cattolico”.
Questo è l’ecumenismo del sangue. Esiste anche oggi, basta leggere i giornali.
Quelli che ammazzano i cristiani non ti chiedono la carta d’identità per sapere
in quale Chiesa tu sia stato battezzato. Dobbiamo prendere in considerazione
questa realtà».
Qual è il giusto rapporto fra la Chiesa e la politica?
«Il rapporto deve
essere allo stesso tempo parallelo e convergente. Parallelo, perché ognuno
ha la sua strada e i suoi diversi compiti. Convergente, soltanto nell'aiutare
il popolo. Quando i rapporti convergono prima, senza il popolo, o
infischiandosene del popolo, inizia quel connubio con il potere politico che
finisce per imputridire la Chiesa: gli affari, i compromessi... Bisogna
procedere paralleli, ognuno con il proprio metodo, i propri compiti, la propria
vocazione. Convergenti solo nel bene comune. La politica è nobile, è una delle
forme più alte di carità, come diceva Paolo VI. La sporchiamo quando la usiamo
per gli affari. Anche la relazione fra Chiesa e potere politico può essere
corrotta, se non converge soltanto nel bene comune».
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