Di Luigino Bruni
Fonte: www.edc-online.org
La nuova economia che in tanti desideriamo non potrà che
venire, rovesciando sguardo e protagonismi, se si riparte dai poveri e dalle
periferie
C’è aria di ottimismo a Davos 2014. Si guarda alla grande
crisi post-2008 come faccenda ormai superata, da archiviare nei libri di storia
e nei cassetti dei ricordi tristi delle famiglie e dei popoli. Peccato che questo ottimismo non abbia basi
solide su cui fondarsi. Quindi la domanda cruciale diventa: per quali
ragioni Davos vuole offrire all’opinione pubblica un quadro dell’economia
diverso da quello ben presente alla grande maggioranza della gente?
La risposta è inscritta nella lista dei protagonisti del “World Economic
Forum”, composta dai leader della finanza mondiale e delle
grandi lobbies transnazionali, con i rappresentanti politici e delle
istituzioni economiche che svolgono, sostanzialmente, il ruolo di spettatori, a
volte di clienti. Élites la cui rappresentatività è ridottissima. L’economia
capitalistica non è una faccenda democratica: non votano le teste, ma i
capitali. In simposi come questo si tocca con mano la verità di quanto
ricordava qualche decennio fa Federico Caffè, e cioè che i mercati non sono
anonimi ma hanno "nome, cognome e soprannome".
Per comprendere certo ottimismo occorre, insomma, tener
presente che per queste èlites, e
per le persone fisiche e giuridiche da esse rappresentate, l’economia tutto
sommato non va poi così male, anzi va benone. Una volta scongiurata (per ora)
la bancarotta del sistema finanziario globale, non troppo remota un paio di
anni fa, c’è tutta una finanza speculativa che continua a trarre dai suoi
affari profitti e, soprattutto, rendite d’oro. Per capire che cosa sta
accadendo davvero a Davos dovremmo allora leggerlo assieme al rapporto
presentato pochi giorni da Oxfam (Working for the few), dove si afferma, tra
l’altro, che ottantacinque super ricchi possiedono l’equivalente di quanto detenuto
da metà della popolazione mondiale. Questi ottantacinque, e con loro qualche
milione di persone sparse ormai in quasi tutti i Paesi (in India il numero di
miliardari è aumentato di 10 volte negli ultimi dieci anni), sono molto ben
rappresentati a Davos. Sono tutti gli altri che non ci sono, e tra questi non
solo i troppi “poveri estremi” molti dei quali abitanti di quell’Africa
devastata da non poche delle multinazionali che oggi, tra quelle montagne
svizzere, fanno bella mostra dei loro patinati bilanci sociali, ma anche le
tante famiglie europee che si stanno impoverendo per una crisi del lavoro il
cui unico precedente verosimile è quella che si verificò agli inizi della
rivoluzione industriale.
Una seconda ragione di questo strano “ottimismo dei pochi” è legata alla
distanza crescente tra i rappresentanti riuniti a Davos e la vita della gente
ordinaria, soprattutto dei poveri. Cosa sanno
queste élites della vita di una famiglia in un villaggio del Sud Sudan, o di
una famiglia europea con uno dei coniugi disoccupato e con due o tre bambini
piccoli? Praticamente nulla. Una delle malattie più gravi di questa generazione
di capitalismo è la totale separazione tra top manager di grandi imprese,
banche, fondi (e non di rado anche di organizzazioni umanitarie globali) e la
gente comune. Quando chi governa non sente più l’odore della gente nelle code
nei negozi, nelle metropolitane, nei treni regionali, questi potenti non sanno
più se stanno governando e maneggiando persone o macchine, anime o centri di
costi e ricavi. Sono le metropolitane e il traffico urbano normale (non quello
delle auto con sirene né quello degli elicotteri privati) i primi luoghi dove
si esercita oggi la cittadinanza, e dove si comprendono i suoi paradossi e il
suo valore. Il patto sociale prima o poi si spezza se per troppo tempo non
respiriamo tutti gli stessi odori della vita, quelli cattivi e quelli buoni.
Il Papa con il suo messaggio ha voluto lanciare, a nome delle non-élites,
un grido di allarme a queste élites che rischiano di perdere contatto con i
luoghi veri della vita sociale. Il rischio grande,
però, è che a quell’importante monito capiti qualcosa di simile a quanto capitò
al direttore narrato da Søren Kierkegaard: "Un direttore di teatro si
presenta sulla scena per avvisare il pubblico che è scoppiato un incendio; gli
spettatori però credono che la sua comparsa faccia parte della farsa che si
stanno godendo, e così, quanto più quello urla, tanto più forte si leva il loro
applauso". Perché le parole di Francesco portino tutti i loro frutti, ci
vorrebbero altri Forum, nei quali i poveri e i Paesi periferici esclusi da
Davos possano raccontare altre storie su questo capitalismo finanziario – con i
politici e i potenti seduti silenti ad ascoltarli.
La sede più naturale per un tale Forum diverso sarebbe la
Roma di Francesco, il solo che avrebbe oggi l’autorevolezza e la credibilità
per riunire tutti intorno sé . La nuova economia che in tanti desideriamo non
potrà che venire, rovesciando sguardo e protagonismi, se si riparte dai poveri
e dalle periferie. Una realtà immensa che è, oggi, "la più piccola tra le
città".
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