Di Maddalena Maltese, Città Nuova
Un cantiere di lavoro dentro le tradizioni e i valori di
un continente a partire dall’Ubuntu
La sezione “Culla dell’umanità” del National Museum di
Nairobi calamita l’attenzione dei giovani visitatori: su quel calco marrone che
porta ben impresse le prime impronte umane in posizione eretta (le orme di
Laetoli) e su quelle ossa minuscole, ritrovate sul lago Turkana e datate 6,5
milioni anni, c’è scritta la prima pagina della nostra storia. Dietro quel
vetro ci troviamo a tu per tu con le origini dell’umanità. L’Orrorin Tugenensis
è il secondo più antico antenato ominide, la testimonianza di quel salto
evolutivo che distinse l’uomo dalle scimmie e i fossili che lo circondano
raccontano di una vita dura, fatta di scoperte sul cibo, sul fuoco, sulle armi
di difesa da da animali di stazza ben superiore, dominatori di quella parte del
Kenya dove gli uomini hanno mosso i loro primi passi. Ricorre in ogni
pannello quanto il bisogno di
associarsi, di non vivere isolati, di essere comunità fosse già nel dna di
questi ominidi, che non concepivano una vita in solitudine: il gruppo era una
sicurezza e in gruppo si viveva e si moriva, si sperimentava e si migrava, fino
a colonizzare anche le altre terre emerse. Ha aperto i lavori dentro queste
sale il cantiere Sharing with Africa (Condividere con l’Africa) dei Giovani per
un mondo unito del Movimento dei focolari, proprio dalle origini dell’uomo e
dell’Ubuntu, un valore tipico della tradizione africana che sottolinea quanto
l’essere e la vita di una persona si realizzino solo in rapporto alla comunità.
Dal 2012 l’obiettivo di costruire ponti con i diversi continenti, che questi
giovani si sono proposti, ha toccato Budapest, la Terra Santa e ora il Kenya.
Dal 25 aprile al 5 maggio con il contributo di rappresentanti da 29 Paesi del
mondo, questo laboratorio interculturale e interreligioso ha lavorato in forum
di ricerca e workshop di scambio e di studio sulle culture del continente nero
in rapporto alle nuove sfide imposte dalla globalizzazione e dalla giovinezza
democratica di tante nazioni africane che dopo la colonizzazione hanno cercato
percorsi di governo dove conciliare differenze tribali e linguistiche con
l’urgenza di una nazione unita e indipendente.
“Ciascun popolo guarda il mondo da una prospettiva,
quella dell’Africa è la comunità. L’Ubuntu non è un concetto filosofico
espresso in proverbi o storie ma una prassi che si traduce in ospitalità,
interdipendenza, solidarietà, condivisione collettiva”, spiega il professor
Justus Mbae, decano all’università Cattolica dell’Africa dell’Est.
E allora perché tanto individualismo e perché così tante
differenze tra le razze e le culture se l’origine è stata unica e la comunità
ci ha generati? Eva Maria del Kenya, laureanda in legge esige insistentemente
risposte. “Le migrazioni hanno posto i primi uomini di fronte a sfide
differenti e ciascuna comunità ha elaborato delle soluzioni diverse da luogo a
luogo. I contesti hanno generato diversità ma la diseguaglianza non vi è insita
a priori: la condivisione di queste innovazioni va recuperata per tornare a
sentirci una sola famiglia umana” spiega Declan O’Byrne, docente all’Istituto
universitario Sophia. La vita caotica
delle metropoli e le profonde diseguaglianze sociali, che non sono patrimonio
esclusivo dell’africano sembrano contraddire i valori comunitari sotto studio,
perché le differenze sono talvolta baratri così profondi, che nessun ponte
riesce a congiungere e attraversare. La miseria testimoniata dai 200 slum che
circondano Nairobi e che i nostri sguardi incrociano con altri nomi e altri
volti nei diversi paesi da cui si proviene sono ferite brucianti di fronte alle
quali si apre un bivio: la resa indifferente o la ribellione sanguinosa come
testimoniano i due attentati che in meno di dieci giorni hanno colpito due
quartieri della capitale keniota. Questi giovani sintetizzano in tre parole
Comunità, Riconciliazione, Condivisione, la loro proposta, che viene
esplicitata in un decalogo conclusivo dei lavori: quasi quattro ore di plenaria
hanno stilato un primo contributo che le culture africane e non solo, possono
offrire a questa umanità in ricerca. L’originalità di questo cantiere sono
state anche le sue dimensioni. La cittadella Piero, centro dei Focolari per
l’Africa, a pochi chilometri da Nairobi, che ha ospitato il meeting lo ha
allargato al mondo, perché per la prima volta è stato possibile partecipare via
streaming a tutte le sessioni di lavoro: uno sforzo tecnico non indifferente se
si pensa che solo il giorno precedente l’inaugurazione sono stati installati i
cavi con la fibra ottica. Giappone, Brasile, Portogallo, Italia, le nazioni
africane non presenti e persino i giovani della Siria si sono sentiti
ingaggiati da questo laboratorio che ha ricevuto l’incoraggiamento della
presidente dei focolari, Maria Voce, grata del
caparbio coraggio con cui si è lavorato a questo progetto. L’Atlante per
la fraternità, il primo dossier del Progetto Mondo Unito, presentato il primo
maggio, a quattrocento giovani africani e via web a migliaia di altri giovani
collegati è il frutto di questo cantiere itinerante che attraverso un
osservatorio permanente ha raccolto e analizzato centinaia di fatti e buone
pratiche, testimonianza di una fraternità in atto nelle diverse nazioni.
Le sfide per i giovani africani restano tante e si
intrecciano alle scelte in controtendenza di molti di loro. Gasparino è della
Tanzania e studia relazioni internazionali. Assieme ad altri giovani per un
mondo unito ha creato una rete di donatori di sangue per rispondere alle
costanti emergenze del principale centro di raccolta della regione di
Iringa.”Il mio Paese talvolta sembra non appartenere ad alcuno – mi racconta.
Il patriottismo, l’amore per la propria terra sono quasi inesistenti sia per il
retaggio della colonizzazione che per i vari conflitti tra tribù. Lo stato ha reso obbligatorio il
servizio militare per cementare un’identità nazionale ma nel mio paese prima
che tanzaniani ci si identifica per la fede, la tribù, la lingua. Ecco perché
Sharing with Afria è importante: ci aiuta a riscoprire la comunità e a
cementare quei valori della nostra cultura sconosciuti in primis a noi
africani.” Emmanuel mentre parla ha ben presenti i tre gruppi etnici che
rendono la Nigeria, il suo Paese un costante campo di battaglie. “Non ho mai
pensato di provare anche nel mio piccolo a creare legami tra questi gruppi. Era
un dato acquisito della mia cultura e lo pensavo immutabile. Invece l’ideale
dell’unità dei popoli che Chiara Lubich ci ha insegnato mi ha fatto vedere che
è possibile vivere gli uni per li altri e non gli uni contro gli altri: è
difficile ma voglio provarci”. Nelle storie che si raccontano nei gruppi, sul
palco o durante i pasti emergono anche i drammi di questo continente popolato
di giovani ma che proprio ai giovani non riesce ad offrire un futuro. Marlene
del Burundi e Urundo del Sudafrica sono preoccupate per le prossime
consultazioni elettorali nelle rispettive nazioni. La prima sa che i tentativi
di cambiare la costituzione da parte dell’attuale presidente sono forieri di
una nuova guerra civile tra hutu e tutsi, nonostante la chiesa cattolica stia
promuovendo da anni incontri di riconciliazione e di perdono per scongiurare
nuovo sangue. La seconda sa che l’eredità di Mandela sarà difficile da
raccogliere per ognuno dei quattro partiti in lizza, nessuno ha lo spessore
spirituale e il piglio del padre della nazione. E poi la corruzione:una zavorra
per lo sviluppo. Sembra il liet motiv dei giovani di Uganda, Malawi, Cameroun,
Kenya. Non si riesce a trovare lavoro senza conoscenze importanti o senza
versare cifre proibitive eppure nei loro occhi, che vedono costanti miserie e
ingiustizie la gioia è sempre viva, una gioia che ti sembra irragionevole e che
invece ritrovi nello sguardo dei bambini degli slum, dove quella luce continua
a brillare. Qui la voglia di vivere vince su tutto.
Per quanto pressanti e intensi i lavori del cantiere
hanno assunto anche i colori e la gioia della festa con un’expo dei popoli dove
si sono presentate danze, musiche, espressioni artistiche perché qui la gioia e
la riuscita di un progetto si misurano dall’intensità del rullo dei tamburi e
dalla durata delle danze: entrambi davvero notevoli. Altra tappa sono stati i
lavori dentro i reparti del Mathari Hospital, un ricovero per malati mentali
che raccoglie i disagi di un’intera nazione: tanti dei reclusi hanno alle
spalle una vita di droga, alcol, colla da sniffare alterata che hanno distrutto
le loro capacità intellettive e relazionali, rendendoli talvolta violenti e
pericolosi. Eppure tra olezzi insopportabili e camerate simili a celle, non è
assente l’umanità: un malato offre ad un altro il cibo ricevuto in dono dalla famiglia;
in tanti vogliono stringere la mano dei “bianchi” in cerca di un’amicizia e di
una relazione anche se l’inglese è stentato e le domande insistenti e
ripetitive. Anche questa è una delle tante periferie che sfida questi giovani a
ricercarle, non solo in questo continente dipinto più dalle sue povertà che
dalle sue risorse, ma anche nelle proprie città. Mentre si pianta il mugumu,
albero sacro delle culture africane si fa memoria di quanto costruito in questi
dieci giorni, si depositano i dolori, si gettano assieme alla terra le speranze
e i progetti perché il verbo sharing, condividere, non appartiene più solo
all’Africa, ora è patrimonio consapevole di tutti.
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