sabato 10 maggio 2014

Riscoprirsi figli dell’Africa

Di Maddalena Maltese, Città Nuova
Un cantiere di lavoro dentro le tradizioni e i valori di un continente a partire dall’Ubuntu
La sezione “Culla dell’umanità” del National Museum di Nairobi calamita l’attenzione dei giovani visitatori: su quel calco marrone che porta ben impresse le prime impronte umane in posizione eretta (le orme di Laetoli) e su quelle ossa minuscole, ritrovate sul lago Turkana e datate 6,5 milioni anni, c’è scritta la prima pagina della nostra storia. Dietro quel vetro ci troviamo a tu per tu con le origini dell’umanità. L’Orrorin Tugenensis è il secondo più antico antenato ominide, la testimonianza di quel salto evolutivo che distinse l’uomo dalle scimmie e i fossili che lo circondano raccontano di una vita dura, fatta di scoperte sul cibo, sul fuoco, sulle armi di difesa da da animali di stazza ben superiore, dominatori di quella parte del Kenya dove gli uomini hanno mosso i loro primi passi. Ricorre in ogni pannello  quanto il bisogno di associarsi, di non vivere isolati, di essere comunità fosse già nel dna di questi ominidi, che non concepivano una vita in solitudine: il gruppo era una sicurezza e in gruppo si viveva e si moriva, si sperimentava e si migrava, fino a colonizzare anche le altre terre emerse. Ha aperto i lavori dentro queste sale il cantiere Sharing with Africa (Condividere con l’Africa) dei Giovani per un mondo unito del Movimento dei focolari, proprio dalle origini dell’uomo e dell’Ubuntu, un valore tipico della tradizione africana che sottolinea quanto l’essere e la vita di una persona si realizzino solo in rapporto alla comunità. Dal 2012 l’obiettivo di costruire ponti con i diversi continenti, che questi giovani si sono proposti, ha toccato Budapest, la Terra Santa e ora il Kenya. Dal 25 aprile al 5 maggio con il contributo di rappresentanti da 29 Paesi del mondo, questo laboratorio interculturale e interreligioso ha lavorato in forum di ricerca e workshop di scambio e di studio sulle culture del continente nero in rapporto alle nuove sfide imposte dalla globalizzazione e dalla giovinezza democratica di tante nazioni africane che dopo la colonizzazione hanno cercato percorsi di governo dove conciliare differenze tribali e linguistiche con l’urgenza di una nazione unita e indipendente.

“Ciascun popolo guarda il mondo da una prospettiva, quella dell’Africa è la comunità. L’Ubuntu non è un concetto filosofico espresso in proverbi o storie ma una prassi che si traduce in ospitalità, interdipendenza, solidarietà, condivisione collettiva”, spiega il professor Justus Mbae, decano all’università Cattolica dell’Africa dell’Est.
E allora perché tanto individualismo e perché così tante differenze tra le razze e le culture se l’origine è stata unica e la comunità ci ha generati? Eva Maria del Kenya, laureanda in legge esige insistentemente risposte. “Le migrazioni hanno posto i primi uomini di fronte a sfide differenti e ciascuna comunità ha elaborato delle soluzioni diverse da luogo a luogo. I contesti hanno generato diversità ma la diseguaglianza non vi è insita a priori: la condivisione di queste innovazioni va recuperata per tornare a sentirci una sola famiglia umana” spiega Declan O’Byrne, docente all’Istituto universitario Sophia.  La vita caotica delle metropoli e le profonde diseguaglianze sociali, che non sono patrimonio esclusivo dell’africano sembrano contraddire i valori comunitari sotto studio, perché le differenze sono talvolta baratri così profondi, che nessun ponte riesce a congiungere e attraversare. La miseria testimoniata dai 200 slum che circondano Nairobi e che i nostri sguardi incrociano con altri nomi e altri volti nei diversi paesi da cui si proviene sono ferite brucianti di fronte alle quali si apre un bivio: la resa indifferente o la ribellione sanguinosa come testimoniano i due attentati che in meno di dieci giorni hanno colpito due quartieri della capitale keniota. Questi giovani sintetizzano in tre parole Comunità, Riconciliazione, Condivisione, la loro proposta, che viene esplicitata in un decalogo conclusivo dei lavori: quasi quattro ore di plenaria hanno stilato un primo contributo che le culture africane e non solo, possono offrire a questa umanità in ricerca. L’originalità di questo cantiere sono state anche le sue dimensioni. La cittadella Piero, centro dei Focolari per l’Africa, a pochi chilometri da Nairobi, che ha ospitato il meeting lo ha allargato al mondo, perché per la prima volta è stato possibile partecipare via streaming a tutte le sessioni di lavoro: uno sforzo tecnico non indifferente se si pensa che solo il giorno precedente l’inaugurazione sono stati installati i cavi con la fibra ottica. Giappone, Brasile, Portogallo, Italia, le nazioni africane non presenti e persino i giovani della Siria si sono sentiti ingaggiati da questo laboratorio che ha ricevuto l’incoraggiamento della presidente dei focolari, Maria Voce, grata del  caparbio coraggio con cui si è lavorato a questo progetto. L’Atlante per la fraternità, il primo dossier del Progetto Mondo Unito, presentato il primo maggio, a quattrocento giovani africani e via web a migliaia di altri giovani collegati è il frutto di questo cantiere itinerante che attraverso un osservatorio permanente ha raccolto e analizzato centinaia di fatti e buone pratiche, testimonianza di una fraternità in atto nelle diverse nazioni.
Le sfide per i giovani africani restano tante e si intrecciano alle scelte in controtendenza di molti di loro. Gasparino è della Tanzania e studia relazioni internazionali. Assieme ad altri giovani per un mondo unito ha creato una rete di donatori di sangue per rispondere alle costanti emergenze del principale centro di raccolta della regione di Iringa.”Il mio Paese talvolta sembra non appartenere ad alcuno – mi racconta. Il patriottismo, l’amore per la propria terra sono quasi inesistenti sia per il retaggio della colonizzazione che per i vari conflitti tra  tribù. Lo stato ha reso obbligatorio il servizio militare per cementare un’identità nazionale ma nel mio paese prima che tanzaniani ci si identifica per la fede, la tribù, la lingua. Ecco perché Sharing with Afria è importante: ci aiuta a riscoprire la comunità e a cementare quei valori della nostra cultura sconosciuti in primis a noi africani.” Emmanuel mentre parla ha ben presenti i tre gruppi etnici che rendono la Nigeria, il suo Paese un costante campo di battaglie. “Non ho mai pensato di provare anche nel mio piccolo a creare legami tra questi gruppi. Era un dato acquisito della mia cultura e lo pensavo immutabile. Invece l’ideale dell’unità dei popoli che Chiara Lubich ci ha insegnato mi ha fatto vedere che è possibile vivere gli uni per li altri e non gli uni contro gli altri: è difficile ma voglio provarci”. Nelle storie che si raccontano nei gruppi, sul palco o durante i pasti emergono anche i drammi di questo continente popolato di giovani ma che proprio ai giovani non riesce ad offrire un futuro. Marlene del Burundi e Urundo del Sudafrica sono preoccupate per le prossime consultazioni elettorali nelle rispettive nazioni. La prima sa che i tentativi di cambiare la costituzione da parte dell’attuale presidente sono forieri di una nuova guerra civile tra hutu e tutsi, nonostante la chiesa cattolica stia promuovendo da anni incontri di riconciliazione e di perdono per scongiurare nuovo sangue. La seconda sa che l’eredità di Mandela sarà difficile da raccogliere per ognuno dei quattro partiti in lizza, nessuno ha lo spessore spirituale e il piglio del padre della nazione. E poi la corruzione:una zavorra per lo sviluppo. Sembra il liet motiv dei giovani di Uganda, Malawi, Cameroun, Kenya. Non si riesce a trovare lavoro senza conoscenze importanti o senza versare cifre proibitive eppure nei loro occhi, che vedono costanti miserie e ingiustizie la gioia è sempre viva, una gioia che ti sembra irragionevole e che invece ritrovi nello sguardo dei bambini degli slum, dove quella luce continua a brillare. Qui la voglia di vivere vince su tutto.
Per quanto pressanti e intensi i lavori del cantiere hanno assunto anche i colori e la gioia della festa con un’expo dei popoli dove si sono presentate danze, musiche, espressioni artistiche perché qui la gioia e la riuscita di un progetto si misurano dall’intensità del rullo dei tamburi e dalla durata delle danze: entrambi davvero notevoli. Altra tappa sono stati i lavori dentro i reparti del Mathari Hospital, un ricovero per malati mentali che raccoglie i disagi di un’intera nazione: tanti dei reclusi hanno alle spalle una vita di droga, alcol, colla da sniffare alterata che hanno distrutto le loro capacità intellettive e relazionali, rendendoli talvolta violenti e pericolosi. Eppure tra olezzi insopportabili e camerate simili a celle, non è assente l’umanità: un malato offre ad un altro il cibo ricevuto in dono dalla famiglia; in tanti vogliono stringere la mano dei “bianchi” in cerca di un’amicizia e di una relazione anche se l’inglese è stentato e le domande insistenti e ripetitive. Anche questa è una delle tante periferie che sfida questi giovani a ricercarle, non solo in questo continente dipinto più dalle sue povertà che dalle sue risorse, ma anche nelle proprie città. Mentre si pianta il mugumu, albero sacro delle culture africane si fa memoria di quanto costruito in questi dieci giorni, si depositano i dolori, si gettano assieme alla terra le speranze e i progetti perché il verbo sharing, condividere, non appartiene più solo all’Africa, ora è patrimonio consapevole di tutti.

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