Fonte: Vatican Insider
Di Roberta leone
Parla la prima donna cristiana aramea sindaco della città
turca di Mardin, mentre i jihadisti conquistano la vicinissima Kobane, in Siria
“Resterò con il mio popolo”: Februniye Akyol riceve la
notizia dell’avanzata dell’Isis nelle strade della cittadina siriana di Kobane
durante la nostra intervista, sui gradoni del colonnato di Piazza San Pietro,
solo pochi minuti dopo essersi fermata a pregare sulla tomba dell’Apostolo. Se
l’Isis, commenta a caldo, dovesse riuscire ad espugnare definitivamente la
città, il confine turco si farebbe sempre più vicino. E tra le prime città del
sud est della Turchia c’è Mardin, la città di cui la Aykol è sindaco.
Grandi occhi scuri e un corpo esile, a 26 anni Februniye
è la prima donna cristiana sindaco di una municipalità turca. È stato il
fondatore del Sermig, Ernesto Olivero, a volerla in Italia tra i testimoni
invitati all’Appuntamento Mondiale dei Giovani della Pace, lo scorso sabato 4
ottobre, a Napoli.
Chiamati in turco sÿriani, i cristiani siriaci, o aramei,
vivono storicamente nella regione turca del Tur Abdin, intorno al monastero Mor
Gabriel. Siro-ortodossi, la loro lingua liturgica è l'aramaico. Negli ultimi
cento anni le persecuzioni li hanno portati da una popolazione di 500mila a
poche migliaia. Delle decine di migliaia di abitanti di Mardin, solo qualche
centinaio sono i cristiani aramei rimasti: 3mila in tutta le regione di Tur
Abdin. Eppure, ad averla votata per il tandem con il curdo Ahmet Turk è stata
la maggioranza dei musulmani della città. Februniye è anche la prima aramea
della sua regione ad aver conquistato la chance di frequentare l’università a
Istanbul. La sua storia inizia a Midyat, una cittadina siro-aramea tra Siria e
Iraq, nel sud est della Turchia. Ed è alla periferia che ritorna: “per il mio
popolo”, ripete, e il suono è lo stesso della lingua che fu di Gesù Cristo. La
voce, quella che per alcuni attimi si spezza al pensiero dell’orrore che
avanza, è femminile anche nella risolutezza: “È lì che devo tornare, a
Mardin”.
Februniye, lei è stata la prima aramea della sua regione a laurearsi.
“Per molti anni,
fino almeno al 2000, per le ragazze aramee è stato impossibile studiare lontano
dalle loro case. Si temeva – e ce ne erano le prove - che venissero rapite dai
musulmani. Per proteggerle, le famiglie cristiane impedivano alle loro ragazze
di studiare, finendo anche per segregarle in casa.
Il nostro popolo ha sofferto molto a motivo della fede.
Dove viviamo noi ci sono i curdi, ci sono gli yazidi, e ci sono i cristiani.
Dal 1915 e fino al 2000, le minoranze hanno tutte subìto il progetto,
dell’Impero Ottomano prima e del governo turco poi, di assimilare le differenze
in un’unica lingua, una sola bandiera, un solo Stato. In quegli anni, l’intento
è stato quello di adoperare la forza dell’Islam curdo contro i cristiani per
poi mettere fine anche all’identità dei curdi. È stato in nome dell’Islam che i
curdi hanno ucciso i cristiani. Ma dopo l’eliminazione quasi totale degli
armeni, dei cristiani in generale e della nostra minoranza aramea, è stata la
volta dei curdi, che per circa quarant’anni hanno lottato per difendere i
propri diritti. Anche in questa lotta i pochissimi cristiani superstiti sono
rimasti schiacciati, e c’è chi di noi è fuggito. Il governo turco accusava i
cristiani di stare dalla parte dei curdi, i curdi entravano nei villaggi
incolpando i cristiani di fare il gioco del governo. E invece i cristiani non
avevano alcuna forza, non hanno combattuto contro nessuno. Non hanno mai preso
le armi perché è questo che il Vangelo insegna. I villaggi cristiani sono stati
letteralmente svuotati. Nel 1990 decine di persone sono state prelevate dalle
loro case e nessuno ha ancora saputo cosa sia successo loro. Tra loro c’erano
medici, sacerdoti, intellettuali. Nessuno sa dove siano”.
Nel suo caso cosa è andato diversamente?
“Dopo il 2000 la
relazione tra il governo di Ankara e i curdi è migliorata. La preoccupazione
restava, ma dagli anni del liceo avevo seguito questo processo e mi sono fatta
coraggio. Volevo rompere il ghiaccio, superare le difficoltà e mostrare alla
mia comunità che potevo studiare e poi ritornare lì da dove ero partita e
impegnarmi per il mio popolo. Volevo essere un modello per le altre ragazze,
perché secondo me si poteva fare: una donna poteva lasciare il proprio
villaggio e studiare. Ho parlato con la mia famiglia e mi sono trasferita a
Istanbul”.
Si è laureata in economia per poi tornare. Che sogno
aveva?
“Non pensavo alla politica, ma c’era un forte desiderio
di aiuto verso la comunità. Quando sono tornata a Midyat, diverse ragazze hanno
seguito il mio esempio. Ne è poi nata un’associazione di giovani laureati, in
cui discutevamo di come far passare a tutti gli altri il messaggio di studiare
per riuscire ad ottenere un cambiamento per la nostra comunità. Ho lavorato per
due anni nell’economia e poi ho cominciato a studiare all’università le radici
della cultura e della lingua aramaica. Questo era il mio sogno: insegnare la
lingua aramaica in università. Un anno dopo sono arrivate in Turchia le
votazioni per le municipalità. Una delegazione del BDP mi ha chiesto la
disponibilità a candidarmi come pro-sindaco per Mardin accanto a Ahmet Turk (71
anni, ndr), già parlamentare curdo di lunghissimo corso. Non era mio desiderio
diventare sindaco della città, ma ho accettato. Mi ha convinto la commissione
delle donne interna al partito. Durante l’incontro con loro si è discusso delle
ragioni per cui avere due sindaci - un uomo e una donna -, della difesa dei
diritti della donna e di tutte le minoranze che vivono nel nostro territorio. Era, questo, anche
il mio desiderio e ho accettato”.
Quanto pesa, nel dialogo con i curdi, il ricordo delle
violenze subìte?
“Chiaro, non è facile dimenticare quello che è successo
alla mia comunità. Ma non ci sono alternative: se vogliamo rimanere in Turchia,
nelle nostre città, allora direi che siamo quasi obbligati a entrare in
politica, a far parte delle istituzioni. Se vogliamo rimanere dobbiamo
collaborare e riuscire ad aprire la nostra mente al futuro. In questo momento
il partito curdo dà questa possibilità ai cristiani, cosa che non fa l’attuale
governo”.
Lei è stata eletta anche da molti musulmani: cosa è
accaduto?
“Sì, sono stata eletta dalla maggior parte della
popolazione curda. I curdi si sono accorti di quello che hanno fatto ai
cristiani e sanno di aver sbagliato. Chiedere la mia candidatura è stato un
modo, anche simbolico, per chiedere scusa per quel che è stato e dirci la loro
vicinanza. Scuse ufficiali e personali sono arrivate anni fa anche dal sindaco
che è oggi mio collega. Del resto, quel che hanno fatto a noi lo hanno poi
subìto anche loro. Hanno dato la possibilità a una cristiana di partecipare con
loro alla vita politica, e così anche noi cristiani possiamo provare – anche se
ormai non resta di noi quasi più nessuno - a dare importanza di nuovo alla
nostra identità, alla nostra cultura, alla nostra lingua”.
Nel bene o nel male, l’elemento religioso ha un peso
nella cooperazione?
“Non ho difficoltà nel collaborare con i curdi e non c’è
una «questione islamica». Nel regolamento del partito che rappresento è
dichiarato che noi tutti lavoriamo per i diritti di tutte le minoranze. Non c’è
cristiano né musulmano, non lasciamo che le appartenenze religiose ci dividano
nel lavoro. La mia nomina, peraltro, è stata approvata da tutti i capi curdi.
Personalmente, ho preso sulle spalle un altro peso: di cercare, con i diritti
dei cristiani, anche quelli degli yazidi. Non è facile: si tratta di una
discussione lunga e complessa, che potrebbe diventare in futuro ancora più
complicata. Cercherò di affermare anche i loro diritti: sento di avere questo
compito e, con l’aiuto di Dio, spero di riuscire a realizzare almeno in parte
quel che ho in animo. Ripeto, non è facile, ma devo riuscirci, perché gli
yazidi non vengano discriminati ancor più di quanto non avvenga già ora”.
Recentemente è stata ad Erbil, ha incontrato molti
cristiani sfollati. Che cosa pensa del ruolo dell’Occidente in questa
crisi?
“Chi è riuscito ad
arrivare ad Erbil non ha più niente. Vestiti, cibo, manca anche l’acqua. Oggi
accade in Iraq quel che è già successo in Turchia. Ci sono tante minoranze e
tanta ricchezza in Iraq, e ci sono anche tanti paesi forti che su questa
ricchezza hanno messo gli occhi. Prima del 2003, i cristiani iracheni
arrivavano a un milione e mezzo di abitanti. Oggi ci sono in Iraq poco più di
300.000 cristiani. In generale, quel che vediamo è che l’Occidente non ha alcun
progetto per i cristiani in Medio Oriente e quasi non mostra interessamento
verso la loro condizione. Alla fine siamo noi - noi cristiani - che veniamo
ogni volta assorbiti, cacciati o schiacciati”.
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