venerdì 10 ottobre 2014

Februnye Akyol: “L'Isis avanza, ma resto per il mio popolo”

Fonte: Vatican Insider
Di Roberta leone
Parla la prima donna cristiana aramea sindaco della città turca di Mardin, mentre i jihadisti conquistano la vicinissima Kobane, in Siria
“Resterò con il mio popolo”: Februniye Akyol riceve la notizia dell’avanzata dell’Isis nelle strade della cittadina siriana di Kobane durante la nostra intervista, sui gradoni del colonnato di Piazza San Pietro, solo pochi minuti dopo essersi fermata a pregare sulla tomba dell’Apostolo. Se l’Isis, commenta a caldo, dovesse riuscire ad espugnare definitivamente la città, il confine turco si farebbe sempre più vicino. E tra le prime città del sud est della Turchia c’è Mardin, la città di cui la Aykol è sindaco.
Grandi occhi scuri e un corpo esile, a 26 anni Februniye è la prima donna cristiana sindaco di una municipalità turca. È stato il fondatore del Sermig, Ernesto Olivero, a volerla in Italia tra i testimoni invitati all’Appuntamento Mondiale dei Giovani della Pace, lo scorso sabato 4 ottobre, a Napoli.


Chiamati in turco sÿriani, i cristiani siriaci, o aramei, vivono storicamente nella regione turca del Tur Abdin, intorno al monastero Mor Gabriel. Siro-ortodossi, la loro lingua liturgica è l'aramaico. Negli ultimi cento anni le persecuzioni li hanno portati da una popolazione di 500mila a poche migliaia. Delle decine di migliaia di abitanti di Mardin, solo qualche centinaio sono i cristiani aramei rimasti: 3mila in tutta le regione di Tur Abdin. Eppure, ad averla votata per il tandem con il curdo Ahmet Turk è stata la maggioranza dei musulmani della città. Februniye è anche la prima aramea della sua regione ad aver conquistato la chance di frequentare l’università a Istanbul. La sua storia inizia a Midyat, una cittadina siro-aramea tra Siria e Iraq, nel sud est della Turchia. Ed è alla periferia che ritorna: “per il mio popolo”, ripete, e il suono è lo stesso della lingua che fu di Gesù Cristo. La voce, quella che per alcuni attimi si spezza al pensiero dell’orrore che avanza, è femminile anche nella risolutezza: “È lì che devo tornare, a Mardin”. 



Februniye, lei è stata la prima aramea della sua regione a laurearsi. 
 “Per molti anni, fino almeno al 2000, per le ragazze aramee è stato impossibile studiare lontano dalle loro case. Si temeva – e ce ne erano le prove - che venissero rapite dai musulmani. Per proteggerle, le famiglie cristiane impedivano alle loro ragazze di studiare, finendo anche per segregarle in casa.
Il nostro popolo ha sofferto molto a motivo della fede. Dove viviamo noi ci sono i curdi, ci sono gli yazidi, e ci sono i cristiani. Dal 1915 e fino al 2000, le minoranze hanno tutte subìto il progetto, dell’Impero Ottomano prima e del governo turco poi, di assimilare le differenze in un’unica lingua, una sola bandiera, un solo Stato. In quegli anni, l’intento è stato quello di adoperare la forza dell’Islam curdo contro i cristiani per poi mettere fine anche all’identità dei curdi. È stato in nome dell’Islam che i curdi hanno ucciso i cristiani. Ma dopo l’eliminazione quasi totale degli armeni, dei cristiani in generale e della nostra minoranza aramea, è stata la volta dei curdi, che per circa quarant’anni hanno lottato per difendere i propri diritti. Anche in questa lotta i pochissimi cristiani superstiti sono rimasti schiacciati, e c’è chi di noi è fuggito. Il governo turco accusava i cristiani di stare dalla parte dei curdi, i curdi entravano nei villaggi incolpando i cristiani di fare il gioco del governo. E invece i cristiani non avevano alcuna forza, non hanno combattuto contro nessuno. Non hanno mai preso le armi perché è questo che il Vangelo insegna. I villaggi cristiani sono stati letteralmente svuotati. Nel 1990 decine di persone sono state prelevate dalle loro case e nessuno ha ancora saputo cosa sia successo loro. Tra loro c’erano medici, sacerdoti, intellettuali. Nessuno sa dove siano”.
Nel suo caso cosa è andato diversamente?
 “Dopo il 2000 la relazione tra il governo di Ankara e i curdi è migliorata. La preoccupazione restava, ma dagli anni del liceo avevo seguito questo processo e mi sono fatta coraggio. Volevo rompere il ghiaccio, superare le difficoltà e mostrare alla mia comunità che potevo studiare e poi ritornare lì da dove ero partita e impegnarmi per il mio popolo. Volevo essere un modello per le altre ragazze, perché secondo me si poteva fare: una donna poteva lasciare il proprio villaggio e studiare. Ho parlato con la mia famiglia e mi sono trasferita a Istanbul”.
Si è laureata in economia per poi tornare. Che sogno aveva?
“Non pensavo alla politica, ma c’era un forte desiderio di aiuto verso la comunità. Quando sono tornata a Midyat, diverse ragazze hanno seguito il mio esempio. Ne è poi nata un’associazione di giovani laureati, in cui discutevamo di come far passare a tutti gli altri il messaggio di studiare per riuscire ad ottenere un cambiamento per la nostra comunità. Ho lavorato per due anni nell’economia e poi ho cominciato a studiare all’università le radici della cultura e della lingua aramaica. Questo era il mio sogno: insegnare la lingua aramaica in università. Un anno dopo sono arrivate in Turchia le votazioni per le municipalità. Una delegazione del BDP mi ha chiesto la disponibilità a candidarmi come pro-sindaco per Mardin accanto a Ahmet Turk (71 anni, ndr), già parlamentare curdo di lunghissimo corso. Non era mio desiderio diventare sindaco della città, ma ho accettato. Mi ha convinto la commissione delle donne interna al partito. Durante l’incontro con loro si è discusso delle ragioni per cui avere due sindaci - un uomo e una donna -, della difesa dei diritti della donna e di tutte le minoranze che vivono nel nostro territorio. Era, questo, anche il mio desiderio e ho accettato”.
Quanto pesa, nel dialogo con i curdi, il ricordo delle violenze subìte?
“Chiaro, non è facile dimenticare quello che è successo alla mia comunità. Ma non ci sono alternative: se vogliamo rimanere in Turchia, nelle nostre città, allora direi che siamo quasi obbligati a entrare in politica, a far parte delle istituzioni. Se vogliamo rimanere dobbiamo collaborare e riuscire ad aprire la nostra mente al futuro. In questo momento il partito curdo dà questa possibilità ai cristiani, cosa che non fa l’attuale governo”.
Lei è stata eletta anche da molti musulmani: cosa è accaduto? 
“Sì, sono stata eletta dalla maggior parte della popolazione curda. I curdi si sono accorti di quello che hanno fatto ai cristiani e sanno di aver sbagliato. Chiedere la mia candidatura è stato un modo, anche simbolico, per chiedere scusa per quel che è stato e dirci la loro vicinanza. Scuse ufficiali e personali sono arrivate anni fa anche dal sindaco che è oggi mio collega. Del resto, quel che hanno fatto a noi lo hanno poi subìto anche loro. Hanno dato la possibilità a una cristiana di partecipare con loro alla vita politica, e così anche noi cristiani possiamo provare – anche se ormai non resta di noi quasi più nessuno - a dare importanza di nuovo alla nostra identità, alla nostra cultura, alla nostra lingua”.
Nel bene o nel male, l’elemento religioso ha un peso nella cooperazione?  
“Non ho difficoltà nel collaborare con i curdi e non c’è una «questione islamica». Nel regolamento del partito che rappresento è dichiarato che noi tutti lavoriamo per i diritti di tutte le minoranze. Non c’è cristiano né musulmano, non lasciamo che le appartenenze religiose ci dividano nel lavoro. La mia nomina, peraltro, è stata approvata da tutti i capi curdi. Personalmente, ho preso sulle spalle un altro peso: di cercare, con i diritti dei cristiani, anche quelli degli yazidi. Non è facile: si tratta di una discussione lunga e complessa, che potrebbe diventare in futuro ancora più complicata. Cercherò di affermare anche i loro diritti: sento di avere questo compito e, con l’aiuto di Dio, spero di riuscire a realizzare almeno in parte quel che ho in animo. Ripeto, non è facile, ma devo riuscirci, perché gli yazidi non vengano discriminati ancor più di quanto non avvenga già ora”.
Recentemente è stata ad Erbil, ha incontrato molti cristiani sfollati. Che cosa pensa del ruolo dell’Occidente in questa crisi? 

 “Chi è riuscito ad arrivare ad Erbil non ha più niente. Vestiti, cibo, manca anche l’acqua. Oggi accade in Iraq quel che è già successo in Turchia. Ci sono tante minoranze e tanta ricchezza in Iraq, e ci sono anche tanti paesi forti che su questa ricchezza hanno messo gli occhi. Prima del 2003, i cristiani iracheni arrivavano a un milione e mezzo di abitanti. Oggi ci sono in Iraq poco più di 300.000 cristiani. In generale, quel che vediamo è che l’Occidente non ha alcun progetto per i cristiani in Medio Oriente e quasi non mostra interessamento verso la loro condizione. Alla fine siamo noi - noi cristiani - che veniamo ogni volta assorbiti, cacciati o schiacciati”.

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